Aminta Cavazzini, una casa e un destino

Intervista alla vedova del cavalier Dante, mentre si avvicina (si spera) l’apertura del museo nella straordinaria casa che lei ha donato alla città di Udine e che sta restaurando Gae Aulenti.

Domina ancora la scena come faceva quand’era a teatro, ha la battuta pronta e sa condire le chiacchierate con una saporita dose di ricordi della sua lunga vita. I tempi di quando era attrice con la Filodrammatica udinese sono lontani, ma il portamento è sempre quello, mentre si muove nel salotto di casa: “Vuole un amaretto? Sono quelli benedetti, li provi!”.
A novant’anni, Aminta Flebus Cavazzini conserva la lucidità di una ragazzina, e non sfuggono i tratti di una bellezza che doveva essere notevole: l’alta statura, gli occhi chiari, il volto regolare. Ma alla fatidica domanda, “Tornerebbe indietro?”, la signora non ha esitazioni a rispondere con un no deciso: “Ho troppo lottato”, spiega, ed è questa battaglia quotidiana con le cose che le fa temere la morte meno di un’eventuale, nuova esistenza in questo nostro mondo terreno. Quelli con la Filodrammatica sì erano bei tempi, “quando si andava a recitare a casa del conte di Caporiacco, dopo il lavoro. Perché a 16 anni, già lavoravo da sola”.
Cerca gli occhiali, ma invano – “Ogni tanto, dice, mi servono per leggere” -, per controllare le date sui ritagli di giornale: il prossimo 31 gennaio, san Giovanni Bosco, l’istituto Bearzi inaugurerà la nuova palestra nel rinnovato padiglione “Clotilde Cavazzini”. Qualche giorno dopo, l’11 febbraio, sarà l’anniversario della scomparsa di Dante, suo marito, grande benefattore dell’istituto salesiano udinese, creatore di quella Casa Cavazzini, che la signora Aminta ha donato alla città e che i friulani aspettano di ammirare trasformata in museo.
E’ l’urgenza di queste ricorrenze a convincerla a riaprire la porta dei suoi ricordi, lei così esuberante eppure così ritrosa di fronte a celebrazioni che, insiste, riguardano suo marito e che lei accetta solo per perpetuarne la memoria. Eppure, lo dice anche il direttore del “Bearzi” in queste pagine, donna Aminta ha fatto ben più che presenziare alle ricorrenze in questi anni dalla scomparsa del commerciante Cavazzini, proseguendo senza ritrosia nell’opera di beneficienza. Dante le aveva segnato la strada, ma nulla le aveva chiesto, a 96 anni, in punto di morte, se non una cosa. Che lei, però, non fece. “Mio marito mi disse: devi chiudere bottega. Chiudi, chiudi subito, mi disse. Ma io come potevo?”

Signora Aminta, generazioni di udinesi ricordano quel grande negozio di stoffe in via Savorgnana. Perché Dante Cavazzini, quando morì, le chiese di chiuderlo immediatamente?
“Me lo disse, sì: chiudere, chiudere subito, mi disse. Non voleva lasciarmi degli impegni. Capiva anche che i tempi stavano cambiando. Ma io sapevo quanto lo aveva amato, e conoscevo bene tutte le persone che vi lavoravano. Quindi pensai che un arco di tempo sarebbe stato necessario affinché queste persone potessero trovare un’altra occupazione e per organizzare meglio tutte le cose. Il negozio chiuse nel ’90, tre anni dopo. Non obbedii a mio marito, ma in fondo credo che anche lui avrebbe capito. Gli ex dipendenti mi ringraziarono, ancora mi scrivono. Questo è ciò che conta e lui ne sarebbe stato contento. Teneva molto a lasciare un buon ricordo di sé”.

E’ per questo che ha deciso di donare la casa di via Savorgnana al Comune di Udine affinché diventi museo?
“Mi è sembrata la scelta più giusta e degna di un uomo come Dante Cavazzini. Lui l’aveva voluta così bella, ci aveva dedicato gli anni migliori della vita, aveva scelto, su consiglio di Ermes Midena, gli arredi e le decorazioni più belle e originali. Afro vi ha dipinto dei capolavori, la cucina è un prototipo che poi divenne modello degli arredi componibili degli anni successivi. Venderla avrebbe significato disperdere tutto ciò”.

Non le dispiace, però, che sia ancora chiusa, e che i progetti di restauro procedano a rilento?
“L’ho detto tante volte che sarò felice quando la prima carriola entrerà in quel portone, quando le finestre si riapriranno. Io resisto, sto aspettando!”

Casa Cavazzini nacque alla fine degli anni Trenta, fu pronta nel 1940 quando lei, a 29 anni, finalmente accettò di sposare quel commerciante di stoffe emiliano che l’aveva corteggiata per dieci anni. Eppure lei quella casa la conosceva già bene.
“Certo, quanto ho pianto su quelle finestre! Si chiamava allora Casa Colombatti e al secondo piano, dove ora ci sono gli affreschi di Afro Basaldella, c’era l’atelier della sarta Zilotti. Mi madre mi mandò a custodire i mannequin le domeniche, quando la sarta andava a trovare la figlia malata di tisi. Mi affacciavo e vedevo la gente passare felice. E io ero lì sola, con quegli abiti preziosi, che nel silenzio della casa sembravano fantasmi. Sotto c’era già il negozio di stoffe, ma io, Cavazzini, non sapevo neanche chi fosse. Lo conobbi molto tempo dopo”.

Vi siete sposati a Gualtieri, suo paese d’origine.
“E in viaggio di nozze a San Remo. In questa veranda, dove tengo le piante d’inverno, ce n’è una che presi per ricordo proprio in quei giorni in Liguria. Quanti anni ha? Vediamo:… 61! Era una piantina grassa. Adesso è proprio brutta, è diventata un cactus enorme e tutto bitorzoluto. Ma non lo butto, ci sono affezionata”.

Ma dopo le nozze, Casa Cavazzini fu la vostra dimora solo per pochi mesi.
“Dante aveva un carattere molto deciso, credeva di poter dominare sempre le situazioni, a volte decideva per gli altrii. E sbagliava. Volle riunire tutta la famiglia a Udine: arrivarono la madre vedova, Clotilde, e le sorelle. Capii poco dopo che quella convivenza era impossibile. Non faceva per me. Io ero abituata alla mia indipendenza. Mio marito capì. Soffrì molto, ma dovette acconsentire. La sua famiglia si era sistemata nella casa, toccò a me andarmene”.

E’ questo a cui pensa quando dice che ha lottato troppo in questa vita?
“Non solo. Sono cresciuta orfana e profuga nella Trieste italiana. Mio padre, tenente degli alpini, morì che io ero bambina, trucidato nella Grande Guerra. Mia madre, Genoveffa, una donna molto forte e decisa, doveva lavorare e mi mandò da uno zio prete a Cividale. Non fu proprio un’infanzia dorata. E poi, devo dire che è stata dura anche dopo il matrimonio, perché lei non era d’accordo: e vennero ancora lotte e sofferenze. Mentre ero in viaggio di nozze, vendette la casa con i mobili, il mio laboratorio di sarta. “Ormai sei una donna sposata, mi disse, non ti servirà più”. Dante era troppo vecchio, diceva, e poi veniva da fuori, era un commerciante… Ma quando lo conobbe, e capì com’era fatto, divenne la sua migliore amica, e lui pianse più di me quando morì a oltre novant’anni”.

E’ ritornata a Casa Cavazzini?
“Come facevo? Troppi ricordi! Vedo ancora i manichini della Zilotti, e poi quegli arredi, gli affreschi. No, sto bene qui. E poi, non mi è mancato nulla”.

Sa che è rimasto tutto intatto come un tempo? Nel bagno ci sono ancora gli anelli appesi al soffitto per gli esercizi.
“Oh, me li ricordo: li mise Dante per fare ginnastica. A quei tempi si usavano. Mi ricordo anche che venne Afro Basaldella a bere il caffè nella mia piccola cucina di via Girardini. Ci conoscevamo fin da bambini. Mi disse: povera Aminta, avevo dipinto tutto per te. Ma certe cose non si possono cambiare. Il destino è una di queste”.

Non la fa arrabbiare questo destino beffardo?
“Oh, no. Ho sempre chiesto una cosa soltanto: vivere serenamente. Così come chiedo adesso di morire serenamente. E che non si ricordi Aminta Flebus, bensì Dante Cavazzini. Lui è quello che voleva essere ricordato. Io sono contenta di essere vissuta accanto a lui”.

Com’era Cavazzini nel privato?
“Un uomo semplice. Ecco, aveva un po’ la testa dura. Molto intelligente, ma un po’ testardo. Ma è stato quel carattere a farlo arrivare dov’è arrivato. Ricordava sempre il suo passato: fu mandato a 14 anni a fare il garzone da un macellaio a Milano. Pensi: un ragazzo, da solo, in una grande città… Poi divenne commesso in un negozio di stoffe. Fu nell’esercito durante la guerra e conobbe il Friuli. Tornò per vendere scampoli in via Manin, nel ’22 aprì in via Savorgnava. Era vulcanico, molto attivo. E aveva un carattere aperto, da vero emiliano. Ma amava i friulani, li trovava concreti, generosi”.

L’11 febbraio saranno 14 anni che suo marito è scomparso. Ma il suo ricordo, grazie anche a lei, è ancora vivo.
“Come ogni anno, celebreremo una messa nella chiesa della Purità. Vi partecipano sempre i ragazzi del Bearzi, che gli erano così cari, e una rappresentanza del Piccolo Cottolengo di don Orione di Santa Maria La Longa, un’istituzione che seguiva con grande attenzione. E poi tutte le persone che ci sono vicine, gli ex dipendenti, il suo autista Baldo, che ora mi accompagna quando vado a fare la spesa. Vivo sola, c’è solo una signora che viene a dormire la notte, così per precauzione. Questa è tutta la mia vita, anche perché purtroppo tanti amici sono morti. E’ questo il mio destino, sopravvivere di ricordi. E coltivare la memoria per gli altri”.

Ha detto che le piacerebbe incontrare Gae Aulenti, la celebre progettista del museo Cavazzini. Che cosa le dirà?
“Semplicemente, che mio marito voleva, con questa casa, onorare il talento degli artisti e degli uomini d’ingegno friulani e che mi piacerebbe che così fosse, anche in futuro”.

Chi era Dante Cavazzini.
Dante Cavazzini nasce a Gualtieri (Reggio Emilia) il 27 maggio 1890 “da numerosa e povera famiglia” come cita uno dei suoi biografi, Serafino Prati. A 11 anni, finite le scuole, comincia a lavorare come garzone muratore, poi come mondariso in Piemonte, infine a Milano, chiamato da un compaesano macellaio, come garzone nel suo negozio di corso Genova. Le stoffe dovevano piacergli, se quasi subito, appena quindicenne, trova lavoro come fattorino prima, e come magazziniere in alcune ditte di tessuti nel capoluogo lombardo. A vent’anni parte militare e, nel 1911, sbarca a Bengasi per partecipare come fante alla guerra libica. Rimpatriato nel 1913, scopre per la prima volta il Friuli il 25 maggio 1915, un giorno dopo la dichiarazione di guerra. Resta in trincea fra l’Isonzo, Gorizia e Tolmino, poi parte per la Francia per combattere a fianco degli alleati. Rientrato in Italia nel 1919, parte come commesso viaggiatore in Austria con un carico di stoffa da vendere a Vienna. Si stabilì a Udine, vendendo subito “un assai consistente volume di merce a prezzo ridotto” e aprì negozio in via Savorgnana 5 il 4 maggio 1922. Nel 1933 aprì una prestigiosa succursale in via Mercatovecchio, che nel ’43 fu requisita per uso militare. Nel 1940 sposa a Gualtieri Aminta Flebus. Già nel 1933 aveva cominciato a interessarsi di beneficienza, conoscendo don Guglielmo Biasutti, che lo avvicnò ad alcune iniziative a favore dei poveri. Fu Biasutti a suggerirgli, quando diede inizio nel 1937 al rifugio “Giacomino Bearzi”, di prendere parte alla crescita dell’istituto, affidato nel ’39 ai salesiani. Insieme, nel 1944, idearono un Piccolo Cottolengo friulano, che aprì nel 1946 a Santa Maria La Longa. Nel 1957, alla morta dell’amata madre Clotilde Avanzi, le intitolò il laboratorio per meccanici specializzati, cui seguirono altri edifici scolastici sempre nell’area del Bearzi, come la scuola di disegno, intitolati anche al padre Giovanni e al fratello Costantino, morto di tisi. Nel 1961, il Comune di Udine, lo nomina presidente della Casa d’invalidità e vecchiaia, mentre Santa Maria La Longa e Gualtieri lo nominano cittadino onorario. Riceve anche il titolo di Commendatore della Repubblica Italiana. In una conversazione con monsignor Biasutti, così spiega questa sua incessante volontà di donare agli altri: “Perché io ricordo, mi capisce? Ricordo quando ho sofferto e faticato lavorando da ragazzo e poi in guerra. Per questo, oggi che posso, do volentieri una mano a chi soffre e fatica. Non ho dimenticato. Appena mi sono sentito soldi nelle mani, mi è venuto spontaneo fare un po’ di bene”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2001.

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