E adesso parliamo di vento

Il vento.

Il viandante e il vento.

Intanto cosa notiamo. Che sono due parole che si assomigliano.

Due parole che volano via. Vian – dan – te.  Ven – to. Che si elevano. Che salgono.

E poi poi anche scendono. Ricadono a terra.

Il viandante cammina, poi si ferma. A volte, quando è preso dal suo andare, quando è giorni che marcia, non sente nemmeno più il suo peso. Si fa leggero. Anzi, non si fermerebbe più.

Però deve farlo, lo fa. Perché fa buio. Perché deve riposare. Perché la sosta serve a ripartire per la tappa successiva. Non c’è cammino, non c’è viandanza senza sosta.

E il vento?

Il vento è simile: si alza e cala, riprende e si appaga, si estingue. Prende velocità o si ferma.

Ma veniamo al mio libro.

Sono qui perché ho scritto un romanzo, , che è stato piuttosto letto e amato.

In cui certo si parla di cammino – è uno dei tre elementi che compongono il titolo – e si parla anche di vento.

Cominciamo dalla copertina. Sono contenta di poterla osservare bene con voi.

Questo invito mi ha dato lo spunto per studiarla, benché sia già stata molto vista e analizzata, e pure premiata.

Dov’è il vento in questa illustrazione? E, soprattutto, come si disegna il vento?

Osservate bene. L’ho fatto anche io.

Per mesi ho avuto sott’occhio questa immagine ma non ci avevo mai pensato. Poi, sollecitata dall’invito a questa conferenza, me lo sono chiesto, e quindi ho voluto chiederlo all’autore.

Proprio con questa illustrazione, Fabio Consoli, l’autore, è stato scelto per comparire nel 3X3Mag, una bibbia dell’illustrazione mondiale.

Ebbene, lui mi ha detto che in questa copertina il vento c’è. Lo vedete?

Osservate.

Ora io sì, lo vedo.

Il vento, dov’è il vento qui?

È nell’erba increspata e non dritta illuminata dalla scia di chi cammina. È nei capelli della figurina che procede nel buio della notte.

Ma questa è una copertina che non solo si muove, scossa o accarezzata dal vento, ma anche che cammina. Non è statica. C’è la figurina in movimento, ci sono questa luna imbrigliata che non si sa se accompagna o trattiene, ma che comunque compone una immagine plastica del movimento, e la scia luminosa, che segue la viandante, è un altro espediente dell’illustratore per dare l’idea del movimento, del sentiero percorso.

Questa copertina è bella perché è composta da elementi che colpiscono nel loro insieme. La luna, circolare. Le betulle, simili a colonne di un tempio. Ho pensato: avrà scelto questi alberi perché io sono nordica. Invece no: li ha scelti perché li conosce e li ama. Perché sono il suo bosco preferito sull’Etna – Fabio Consoli è di Catania e lì vive – e perché dice che sono l’unica pianta che ti guarda. Le betulle hanno gli occhi, infatti.

Insomma, quante cose si imparano dalle copertine dei libri!

Ma non divaghiamo. Torniamo al cammino.

in questo viaggio, che mi ha portata a scrivere questo libro, ho camminato molto con il vento.

Eppure, non è diventato un titolo.

Vi leggo il sommario del libro.

Non c’è.

Perché? Perché il vento è ovunque, come l’aria.

Così come si dà per scontato il camminare.

Il vento ha molto a che fare con il viandante, con la viandanza.

Viandanza. Che bella parola. Ha dentro si sè la via, e la danza. È, in buona sostanza, un danzare sulla via, un librarsi, un muoversi a ritmo.

Sapete che viandanza non esiste nel vocabolario? Provate a cercarla.

Sfogliate il dizionario alla vecchia maniera. Prendete il librone rilegato, i fogli sottili per contenerne tanti, andate verso la fine, alla V. la V di vento, appunto, La V di viandanza. Ma viandanza non c’è.

Oppure digitate la parola su Google, anzi, non serve più, ormai i motori di ricerca sono integrati nei browser, ovvero nei programmi per navigare su internet. Insomma, scrivete viandanza sul web e vi apparirà altro. Il motore di ricerca ricercherà appunto la parola più simile, che è viandante.

viandante s. m. e f. [comp. di via2 e andante, part. pres. di andare1]. – Chi va per via; in partic., chi passa per vie fuori di città, viaggiando a piedi, per raggiungere luoghi anche lontani: Viandante alla ventura, L’ardue nevi del Cenisio Un estranio superò (Berchet); una comitiva, un gruppo di viandanti (espressioni, queste, che oggi non sarebbero più attuali); lungo la strada s’incontravano rari v.; un v. bussò alla sua casa chiedendo asilo per la notte. In botanica, albero del v., lo stesso che albero del viaggiatore (v. questa locuzione). Nel linguaggio ascetico, lo stesso che viatore.

oppure, stringatamente, il sito Garzanti, dice che il viandante è

chi compie un lungo viaggio a piedi”.

Quindi la viandanza non esiste ma esiste il viandante.

Di questo siamo certi.

In fondo, lo siamo tutti viandanti. O no?

E il vento? Esiste il vento? Certo lo sentiamo, ne percepiamo la forza (pensiamo alla bora!), il refrigerio nei giorni di afa, l’utilità (per esempio se navighiamo in banca a vela), però non lo possiamo toccare, prendere.

Il vento è per sua natura immateriale e spesso imprevedibile. Però il vento esiste, e gliene diamo atto. Tuttavia, un po’ come l’aria che respiriamo, lo diamo per scontato, ce ne accorgiamo solo quando manca (se appunto fa caldo), o ci dà fastidio perché è troppo. E sappiamo nulla o poco di lui, a meno che non siamo meteorologi o dobbiamo navigare a vela.

E tornando alla parola ven – to, al suo ritmo, vediamo che anche lei, al pari di vian – dante, sale e poi scende. Proprio come il vento, che si eleva, e poi cala, e abbassa le cose che ha alzato al suolo, le ferma. Anche il vento fa le soste, come il viandante, come chi cammina.

Però da qualche parte nel mondo il vento c’è sempre, e così da qualche parte sulla Terra c’è un viandante che cammina, anzi ce ne sono molti, ancora oggi, che si spostano in continuazione, che viaggiano a piedi.

Che migrano, certo. Il viandante per necessità è di evidente e drammatica attualità oggi per noi europei, ma è un fenomeno che interessa tutti i luoghi e tutte le epoche da quando esiste l’uomo.

A forza di essere vento, canta Fabrizio De Andrè in Khorakhané, canzone che ha dedicato ai gitani. Un popolo che, se ascoltiamo Erodoto, cammina da duemila anni. Un popolo affetto da dromomania, che è il “desiderio continuo di spostarsi”.

L’uomo ha due gambe per muoversi, non per restare fermo. La condizione naturale della donna, dell’uomo è quella di deambulare, non si sedersi. Né di stare fermo in piedi.

To stand, dicono gli inglesi. Che vuol dire stare in piedi. Noi non abbiamo un vocabolo preciso. Non abbiamo nemmeno una parola per dirlo.

“Si alzi!” o “In piedi!” dicono il giudice o il maestro.

Sono inviti, ordini dell’autorità. Ci si alza per rispetto, per esempio durante le liturgie. Le sentinelle rimangono in piedi, i corazzieri, le truppe o le scolaresche in parata, i giovani ai concerti, ma nella vita di tutti i giorni per lo più non si fa, semmai ci si siede.

La sedia è stata inventata per stare più comodi, ed è stata un po’ la nostra rovina. Non nella direzione del progresso (né delle nostre fortune: in Friuli ne sappiamo qualcosa), ma in quella del benessere. Non per colpa sua, povera sedia, ma per colpa nostra, perché ne abbiamo abusato. Come è successo per la carne, che quando era un cibo rituale, premiale, una conquista della caccia, un corroborante per un eccezionale sforzo fisico, un omaggio a un giorno di festa, a una cerimonia, aveva la sua giusta quantità, mentre invece oggi che si compra incellophanata al supermercato è un piatto quotidiano causa di molti acciacchi contemporanei.

Si mangia troppo.

Ci si siede troppo.

Nasciamo bipedi, non stanziali. Nel corso dell’evoluzione, la nostra schiena è diventata eretta e così ha liberato le mani per smettere di camminare, di appendersi, e per fare altro: costruire, creare, inventare, scrivere, formare comunità e società.

E le gambe? Non si sono atrofizzate, anzi. Si sono allungate, e i piedi sono diventati più stabili e molto sensibili.

I piedi ci servono per camminare, ma anche per pompare sangue al cervello, fare funzionare il nostro sistema cardiocircolatorio.

Noi siamo nati per camminare, non per stare fermi.

L’organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di camminare almeno sette chilometri al giorno per un corretto benessere psicofisico. Ebbene, sapete quanto camminiamo noi bipedi europei?

Lo possiamo ricavare da uno studio presentato l’anno scorso a Gmund a un simposio Interreg fra Friuli Venezia Giulia, Carinzia e Slovenia dedicato all’Alpe Adria Trail, il sentiero a tappe che penso conosciate, che percorre una buona parte della nostra regione da Tarvisio a Cividale e fino a Trieste. Ero là e ho ascoltato. Lo studio ha riguardato un campione della popolazione tedesca. Mediamente, dai bambini agli anziani, è risultato che nel Dopoguerra si camminava più di sette chilometri al giorno, mentre oggi la distanza percorsa a piedi è di 700 metri quotidiani.

Settecento metri!

Ora capite come la differenza fra il movimento minimo consigliato dall’Oms e quello che effettivamente compiamo non possa che nuocere gravemente alla nostra salute.

Certo, le stime, le medie non possono descrivere la complessità delle nostre vite, però è facile cogliere a occhio quanto camminare sia diventata una funzione residuale rispetto a molte altre.

Camminare ci pesa, ci annoia, camminare è faticoso, camminare richiede tempo, e noi non ne abbiamo mai.

Camminare si fa all’esterno, e allora può piovere, fare caldo e tirare vento, appunto.

Insomma ci sono mille scuse per non camminare. E poi ci sono le protesi, come le chiamo io, ovvero tutta una miriade di ausili che ci permettono di evitare, o di ridurre l’azione di muoversi, oppure che ci distraggono, ci intrattengono senza l’obbligo di alzarsi e camminare. Non serve che le elenchi, le conoscete bene: l’automobile, il televisore, il computer, internet, il telefono, eccetera. Tutte protesi, ovvero prolungamenti, facilitatori delle nostre naturali funzioni, che sono utilissime, senza dubbio, ma che valgono solo se, come per la sedia e la carne, non ne se abusa.

Insomma, l’uomo non cammina più per necessità, a meno che non debba migrare, scappare dalla fame, dalla guerra.

Però il vento si alza ancora, si alzerà sempre.

Ci sono però un altro uomo, un’altra donna che, come il vento, si alzano e camminano sempre di più.

Quella donna, quell’uomo sono i viandanti moderni: persone che si mettono in cammino per diletto, per passione, per amore della natura, per raggiungere un luogo di fede o semplicemente per mettersi sulla via, per vivere un giorno, una settimana, un mese a passo d’uomo, al ritmo del proprio cuore e del proprio respiro.

Perché camminare è proprio questo: è andare al ritmo giusto, che non è né lento né veloce ma semplicemente congeniale a noi bipedi, di modo che l’occhio veda i particolari senza sforzarsi, che la mente elabori e percepisca i pericoli, che i sensi sentano, che le emozioni si sprigionino.

Un odore, un rumore, un profumo, un canto, un colore, tutto si disvela e si enfatizza nel cammino, è come un film che si proietta a mano a mano che procediamo. Un film che non si ripete mai, che è sempre diverso, che non annoia perché ha infinite variazioni, che sono tante quanti sono gli esseri umani che lo guardano. Perché non c’è un cammino uguale all’altro, e non c’è alcuna guida che potrà raccontare il nostro viaggio.

Quel cammino, quel viaggio fatto con i piedi e con il corpo, con la fatica e lungo la strada aperta è solo nostro e nessuno ce lo potrà  raccontare. Né potrà farlo al posto nostro.

Perché il cammino non si può delegare. Il cammino o si fa o non si fa.

E noi che siamo fatti così, con la schiena dritta e le ossa lunghe, le mani libere e i piedi sensibili, le spalle dritte e a testa rivolta in avanti, lo sguardo lanciato verso l’orizzonte, noi siamo camminatori nati, siamo fatti per viandare.

Così come il vento, che si alza quando vuole, e che non si può fermare. Possiamo erigere muri, barriere. ma saranno sempre ostacoli parziali e temporanei alla forza della natura di esprimersi, al vento di soffiare, all’uomo di camminare.

A Trieste ne sanno qualcosa, del vento. Dicono che a Trieste ci siano tanti matti perché soffia la bora. Non solo lo dicono: qualcuno lo ha anche studiato. Dicono che il vento faccia ammalare. Che sia cattivo.

Non è così. Come chi migra, chi cammina, chi non vuole stare fermo. Non ha qualcosa di strano, non può essere fermato. Perché è nella natura, perché è nelle cose.

Il vento è compagno del viandante. Perché gli assomiglia. Perché non è né buono né cattivo, ma semplicemente è.

Vi ringrazio.

Alessandra Beltrame

Ho scritto questo testo per una conferenza che ho tenuto su invito del club di Udine del Rotary che ha avviato un ciclo di incontri dedicati al vento.

Foto: Scala dei Turchi, Porto Empedocle, Sicilia. Sosta, tramonto, vento regolare

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