Non ho mai voluto disfarmi della mia bicicletta Graziella, la prima, quella con cui ho cominciato a pedalare. Non ricordo quando mi fu donata, però immagino che fu una sera, una delle sere in cui mio padre ritornava a casa, sul tardi, spesso con regali, pacchi, sorprese. Lo faceva per giustificarsi, perché era stato via per tutto il giorno. Essendo sempre in giro, aveva l’occasione per vedere tante cose, e alcune le comprava, e ce le dedicava, e ci teneva che ci piacessero.
Penso che fu proprio così, sono sicura che papà arrivò una sera con la Graziella, uscendo con lei dall’ascensore sul pianerottolo del quinto piano dove vivevamo, un bel palazzo piccolo borghese anni Sessanta, spazioso come si conveniva a chi se lo poteva permettere.
La Carnielli, che produceva la Graziella, era una fabbrica di biciclette di Vittorio Veneto, dunque non distante da casa nostra. Sono convinta che il papà andò in fabbrica a comprarla, e che me la portò fresca e lucente di produzione. Io lo vedo ancora oggi, il mio papà, che esce dall’ascensore chino sul piccolo manubrio, le piccole ruote che scorrono sul marmo scuro dell’ingresso mentre entra in casa, la mamma che esclama di meraviglia, io che all’inizio resto zitta per la sorpresa e che poi mi lancio in mille domande, una raffica infinita di curiosità.
La mia Graziella. La mia prima bicicletta. Ne ero, ne sono molto orgogliosa. Ha vissuto per molto tempo in cantina. Poi è emersa quando sono andata a vivere da sola.. Me la sono portata dietro, l’ho appesa in casa, su una mensola che stava sospesa al soffitto in una casa che avevo affittato nel centro storico di Cividale del Friuli, un paese magnifico. Era una casa antica, con i soffitti alti. La Graziella svettava in cima, era bellissima.
Poi quella casa l’ho chiusa, ho lasciato il fidanzato. La Graziella è finita di nuovo in cantina. Però non l’ho abbandonata. Mi ha accompagnata in un altro trasloco, questa volta a Milano. La casa era piccola, non c’era posto per lei. Così se ne è stata buona buona in cantina, di nuovo. Una nuova cantina, al buio, in compagnia di altri vecchi oggetti, di scatole, di libri di scuola, di ricordi della mia infanzia, di altre vecchie cose da cui non volevo separarmi. Lei, povera, si è arrugginita, è diventata vecchina. La gomma delle ruote è collassata, ha perso elasticità. Le cromature sono diventate scure, le sfere hanno perso il grasso e hanno smesso di ruotare negli ingranaggi.
Graziella la vecchina è ricomparsa un giorno di settembre, dopo il mio ennesimo trasloco. Non potevo più lasciarla al buio e al chiuso. Mi sentivo in colpa. Così l’ho fatta uscire dal solaio, il suo ultimo approdo, e le ho fatto percorrere alcune decine di metri fino al negozio di Leonetto, Mirna Cicli. “Ti costerà cara” mi ha detto con un sorriso, “ma se mi aiuti risparmi. La sistemiamo insieme, vuoi?”. Voglio. “Non adesso, però. Quando arriva l’inverno, che c’è meno da fare”. Ok.
Ho aspettato. Ho riportato a casa la Graziella e poi, insieme, siamo ritornate in via Conte Rosso, un lunedì mattina di novembre. Appuntamento alle 8. Per tre lunedì l’abbiamo smontata, pulita, ingrassata, lucidata. In verità faceva tutto lui, mentre io osservavo, e lo ascoltavo. Il primo giorno mi ha regalato una matita. “È per tenere un diario, se ti va” Mi va. Appunto nel mio quaderno i nomi delle parti della bicicletta che via via smontiamo: la serie di sterzo, la forcella, la calotta. Svuotiamo la calotta delle sfere, la puliamo e poi ce le rimettiamo, a una a una, le piccole sfere ingrassate che permettono alla forcella di sterzare, alla bici di girare, che permettevano a me bambina di correre nel cortile di casa e di fare piccoli giri nel quartiere, sotto la supervisione di mamma e papà.
La Graziella era la bici dei miei primi anni, ne avrò avuti cinque, o sei. Era il mio primo strumento di libertà, per fare le prove. “La bicicletta è un modo per concepire una vita diversa” dice Leonetto, che ha lo stesso nome del nonno, massacrato da una banda di fascisti e morto prima che nascesse suo figlio. La bicicletta è una forma di resistenza. Resistenza all’omologazione. Alla solitudine. “È un mezzo che ti invita a fare attenzione. Fra i ciclisti c’è sempre molta solidarietà”. Non come l’automobile. Quando ti chiudi nell’abitacolo, il mondo scorre oltre il vetro, l’umanità scompare. “Diciamo che l’automobile è diversa. A volte prendere la patente è l’inizio di un lungo viaggio per rimanere fermi”. Leo l’automobile non ce l’ha. Gli si inumidiscono gli occhi ricordando il padre che stravedeva per Fausto Coppi, di quando lo portava in pellegrinaggio a Castellania, e di cosa aveva significato, per gli italiani nati negli anni del fascismo, vedere questo ragazzo diventare un campione a suon di pedalate. “Si identificavano in lui. Coppi rappresentava il riscatto, il sogno. Quello che non potevano avere, lui lo prendeva per loro”. Tempi duri, ma pieni di speranze.
Coppi muore nel 1960, a quarant’anni. La mia Graziella nasce qualche anno dopo, nel ’68, ’69. Figlia degli anni Sessanta, come Leonetto, come me. Altri tempi oggi, altre corse. Le ruote della mia Graziella non corrono più, le ho tenute così com’erano, originali, pazienza se sono sfondate: una volta che la bici sarà appesa – perché di nuovo appesa la voglio, a casa mia – non si vedrà poi tanto. Un restauro conservativo abbiamo fatto, Leonetto e io – anzi, Leonetto e basta, io guardavo e prendevo nota – lucidando il ferro dei parafanghi fino a farlo brillare di nuovo, togliendo la ruggine, ungendo con l’olio dove non si vuole che la ruggine ritorni, lasciando però i segni del tempo, i graffi, le scalfitture della vernice bianca, la sella consumata e però sempre bella. E comunque il freno davanti funziona e così il posteriore, azionato dal contropedale. E il manubrio ora ruota che è una meraviglia, dopo che la calotta e le sue sfere sono state pulite, la serie di sterzo della forcella anteriore di nuovo efficiente. I pedali, la catena, poi sono perfetti.
Altri tempi, nuovi tempi. Tempi giusti. Per rallentare. Per ricordare. A questo è servita la mia Graziella. Con lei continuo a fare bei giri.