8 giugno, domenica
Si arriva a Guardiaregia scavalcando Campobasso in bus, con pochi euro oltrepassi la città periferica, i condomini e i capannoni sono un pugno in un occhio dopo i bei paesi della provincia di Isernia che abbiamo attraversato a piedi. La stazione dei pullmann è un obbrobrio, dovrebbero vietare di lavorare a chi l’ha progettata (e scelta) per non fare altri danni. Veniamo da paesini in pietra, rocche sulle quali i castelli sono costruiti in armonia con l’ambiente, sembrano prolungamenti naturali. Qualcuno dovrebbe chiedersi perché l’architettura urbana sia così degenerata. Non può essere solo una questione di progresso e di efficienza.
Un altro bus e si sale a Bojano, dove il Molise ritorna bello e selvaggio. Dove i paesi sono vuoti di gente ma pieni di anima. Dove ci accoglie Patrizia al Casale del Vescovo, che fu buen retiro di un potente religioso. Oggi forse abita ancora il palazzo, o meglio il suo fantasma. Si scherza a tavola ma non troppo: siamo in mezzo ai boschi, con le volpi tenute lontane dal cane di casa, Santippe, e ci sono le travi che scricchiolano, il set è perfetto per solleticare paure ataviche. Infatti il vescovo turberà il sonno di qualcuno del gruppo… Ci mette del suo il nostro pastore Cesidio, che qui ci ha dormito da solo quando è venuto a preparare il cammino e confessa di aver sentito una strana presenza aleggiare fra le antiche mura. Ma i pastori, si sa, sono bravi a raccontare storie, le hanno ripetute mille e mille volte nelle lunghe notti di solitudine lontano da casa, sotto le stelle, sui pascoli della transumanza. Alcuni di loro sono diventati poeti e narratori non a caso.
Si mangia minestra di farro al profumo di tartufo, ricotta e caciocavallo (di cui ci siamo riforniti a Carovilli: “Dovremo dichiararlo alla dogana?” si preoccupano i canadesi). Patrizia mi racconta anche del “caciosalame”, che i molisani si erano inventati per i parenti d’Oltreoceano: tagliavi il formaggio ed ecco che compariva il salume, la cui esportazione era vietata.
9 giugno, lunedì
L’indomani la meta sono le rovine di Sepinum, città romana fra le cui colonne sono passate pecore a milioni in transumanza perché si trova proprio sul tratturo che da Pescasseroli portava a Candela di Foggia. Arrivarci a piedi è favoloso, oltre l’erba dell’ultima collina ecco spuntare l’arco di Porta Bojano, intatto (foto). E, dentro, le taberna, il macellum (mercato), il teatro, il tempio, il foro, la fontana del Grifo, il decumano, il cardo, il ginnasio e le terme. Un capolavoro racchiuso da mura, dove però anche si vive: ci sono vigneti, galline che razzolano e, appena fuori, una trattoria con i tavolini fuori. Fa un caldo africano, ptrebbe essere un miraggio. Invece no, e ci sediamo per mangiare.
Se il nostro cammino è finito, non finisce il tratturo. La seconda parte, fino in Puglia, si farà a settembre, proprio quando si accingevano a partire le greggi dagli stazzi abruzzesi. Alla dogana creata dagli aragonesi a Foggia ne contavano cinque milioni l’anno, il dazio che Napoli ne ricavava corrispondeva a più della metà del bilancio del Regno. Però la ricchezza non era dei pastori che transumavano: loro non erano che poveri salariati, sfruttati dai padroni delle bestie, i quali se ne stavano nei loro palazzetti a contare la pecunia che derivava dal commercio della lana. La parola pecunia i romani l’hanno derivata da pecora, gli animali erano l’unità di misura della ricchezza. Ma anche ciò che determinava nascite, parlata, carattere di un popolo. Se da ottobre a giugno gli uomini erano lontano dai paesi, voleva dire che i figli nascevano negli stessi mesi. E così fu per secoli in Abruzzo. E le parlate: ce n’era una per le donne, e una per gli uomini, perché era contaminata da quella pugliese. Ancora oggi le differenze dialettali per sesso sopravvivono. Non risulta di una pastora donna che andasse in transumanza, ma magari c’era. Di certo oggi ci sarebbe.