Nives Meroi, lady Ottomila

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Anche il matrimonio lo ha fatto ad alta quota: sulla Cordillera Blanca, in Sudamerica. Non fu che una specie di allenamento: vette ben più alte l’aspettavano. Ma per Nives Meroi, unica alpinista italiana in attività ad aver raggiunto la cima di tre “ottomila”, mettere la bandiera sulla sommità della montagna non è mai stato il fine. Avesse voluto, avrebbe scelto i versanti più facili. Insomma, più che i record, le piacciono le sfide. Con la natura, con sé stessa, con i pregiudizi. Che sono ancora tanti. E dopo aver conosciuto le storie delle donne del Pakistan sfigurate dai mariti con l’acido, riconosce che le discriminazioni di cui le donne alpiniste sono oggetto pure oggi, non sono che una infinitesimale parte del problema.
Altro che ottomila. Quello, in confronto, è il paradiso: silenzio assoluto, necessità di ascoltare il proprio corpo in ogni momento, rapporti umani intensi, solidarietà al massimo, concentrazione totale verso la missione, confronto con gli elementi in forma pura. Una condizione che “ti mangia le energie”, ma anche che “ti riconcilia con la tua essenza”, perché “non hai distrazioni”. Oddio, è roba per persone forti: dopo i 4-5 mila neanche un fiorellino rallegra il paesaggio. Ma vuoi mettere con “quelle vastità incredibili, quegli spazi infiniti”? Una condizione “teraupeutica”, sintetizza Nives Meroi, della quale, dice candidamente, “non posso più fare a meno”.
Ma come si vive a quota ottomila?
“In modo molto difficile. Certamente il nostro corpo non è fatto per quell’altitudine. Nessun essere umano si può adattare. Anche gli abitanti di Nepal, Pakistan giungono a risiedere al massimo a 4 mila, 4 mila 500 metri. Per questo, i giorni di avvicinamento servono ad adattare il fisico alle quote sempre maggiori. Ma, attenzione: non bisogna fermarsi troppo. Perché all’altitudine ci si abitua ma il fisico degenera. La carenza di ossigeno ti consuma. Il sangue diventa come melassa, il rischio di trombosi, edemi, è attuale, come quello di congelamento, anche senza particolari freddi. Tutte le funzioni vitali subiscono un eccezionale rallentamento, anche i ragionamenti diventano lentissimi”.
Le è capitato di fermarsi, di dire basta, non ce la faccio più?
“No, ho rinunciato a raggiungere la cima soltanto perché le condizioni atmosferiche o gli eventi lo hanno reso ragionevolmente impossibile. Ma può accadere in qualsiasi momento che il corpo non ce la faccia più, a quei livelli. E quando uno di noi si rende conto che non ce la fa, che il suo fisico non è più in grado di proseguire, deve dire basta”.
Vi aiutate con le bombole di ossigeno?
“No. Adesso sta prendendo piede la moda di fare le spedizioni con le bombole. Non è il mio tipo di alpinismo. Non abbiamo mai usato bombole, non ci interessa. Non ci interessa fare parte di questa società “no-limits”, orientata la business, al record a ogni costo, perché vende”.
Le spedizioni però costano. Come vi finanziate?
“Basicamente da soli, mettendo da parte tutto quello che guadagnamo lavorando, per investirlo in attrezzature, trasporti, visti per salire sulle cime”.
Visti per le cime?
“Certo, Paesi come Pakistan, Cina, Nepal, contano molto sugli introiti di chi va a scalare le loro montagne. Per poter arrampicare, paghiamo una tassa, che incide abbastanza sul budget complessivo”.
Come si concilia il lavoro con l’alpinismo professionistico?
“Abbastanza male, almeno nel mio caso. Per mio marito, che è guardia forestale, è più facile. Lavorare in un ufficio, quando ti devi assentare per un paio di mesi almeno d’estate e poi ha gli allenamenti e tutto il resto, è molto difficile. Al punto che ho deciso di lasciarlo per dedicarmi di più anche alla divulgazione delle nostre attività. Certo, è stata una rinuncia, a tutti fa comodo un po’ più di denaro, ma la mia è stata una scelta di vita. Pazienza, mi comprerò qualche bel vestito in meno”.
Anche alle alpiniste piace la moda?
“Certo, non è che ci vestiamo sempre in tuta… Poi, io non sono una fanatica, conduco tutto sommato una vita normale. Qui a Tarvisio ho gli amici, seguo la casa. Ecco, non mi piace cucinare”.
Cosa mangiate a ottomila metri? Non è che ai bivacchi tocca cucinare alle donne?
“Nel mio caso proprio no. Chiedemi altro, piuttosto… Cosa mangiamo? Grandi pastasciutte, un pasto perfetto. Sui 7 mila, un bel piatto di tagliatelle… Anche per mantenere i sapori di casa e non sentirsi troppo estraniati. Perché lassù ti passa anche la voglia di mangiare, allora devi stimolarla. Per il resto, ai campi mangiamo il cibo locale”.
Lei è la donna italiana che è salita più in alto, per più volte. Ma quante donne incontra lassù?
“Pochissime. C’è un fatto oggettivo: la donna è fisicamente più debole. Ma c’è anche un condizionaento culturale: l’alpinismo viene visto ancora come un terreno di gioco per gli uomini. La scalata, nel senso di conquista, è tipicamente maschile. Tutti gli esploratori sono stati uomini. Questo fatto dell’ignoto, della sfida, è nel loro Dna. Noi abbiamo un approccio diverso: ci interessa conoscere più che conquistare, fare esperienze nuove più che esplorare l’ignoto. Anche la stampa specializzata, si nota chiaramente, è fatta dagli uomini per gli uomini”.
Ancora?
“Sì, purtroppo. E questo blocca ulteriormente le donne. Se poi, come dicevo, ti trovi al campo base per l’Everest e la popolazione locale discute ancora se le donne debbano essere trattate come esseri umani oppure no, allora ti arrabbi un po’”.
Non le è mai capitato di sentirsi discriminata, esclusa, perché donna?
“Mai. Nelle mie spedizioni, mai. Più che come donna, mi hanno sembre considerata come “alpinista”. Ma la discriminazione c’è”.
La presenza di suo marito, l’alpinista Romano Benet, con il quale ha condiviso tutte le spedizioni, è un vantaggio?
“Certamente. Di fronte a certi discorsi, magari gli altri uomini fanno un po’ di attenzione… Ma il vantaggio, per me, è condividere con lui questa passione. Fin dall’inizio: stiamo insieme dall’età di 18 anni. E la cosa più bella è stata crescere assieme. Le spedizioni, le scalate, sono esperienze che in qualche modo ti cambiano; per cui viverle assieme ti permette di continuare a parlare la stessa lingua”.
Ha mai paura? Lei fa uno sport estremo, per il quale anche alcune fra le alpiniste più esperte hanno lasciato la vita.
“La montagna non “uccide”, come si legge spesso sui giornali. E’ l’uomo che sfida gli elementi e che a volte soccombe. Può capitare a tutti la fatalità. Ma l’uomo muore anche perché va oltre il lecito, o il possibile. La natura a volte dice: fermati, e sta a te ascoltarla. Invece, capita che la voglia del record a tutti i costi provochi le tragedie. Io, noi, ci siamo sempre fermati quando lo abbiamo ritenuto necessario per salvaguardare la nostra vita. Non raggiungere la cima non vuol dire fallire”.
Lei vuole dire che spesso gli incidenti o le disgrazie non sono fatalità, ma si vanno a cercare quasi in maniera deliberata. Al punto che il vostro gruppo non vi è mai rimasto coinvolto.
“E’ così, anche se non si può generalizzare. Chiamiamola anche a volte fortuna, ma se non ci è mai successo nulla di tragico la ragione c’è: sta nel nostro modo un po’ particolare di andare in giro. Per me, per noi, la cima non è il fine, certo fa piacere raggiungerla, ma quando ci sei su, come disse a un giornalista il grande Herman Buhl, che scalava in solitaria, “non c’è nessuna orchestra che suona””.
Certo che comunque non scegliete mai la via più facile: versanti nord, oppure mai battuti dall’uomo. Le vostre sono comunque grandi imprese.
“Credo che questa nostra voglia di sperimentare il nuovo derivi dalla formazione compiuta qui, in Friuli. Queste, le nostre, sono montagne bellissime, che nulla hanno da invidiare come difficoltà alle Dolomiti, ma sono di certo meno frequentate, e dunque meno battute, meno attrezzate, più selvagge. Arrampicando qui, ti misuri con condizioni diverse, più severe: spetta a te intuire la via e il compito di attrezzarla, non trovi i chiodi a ogni passo, e raramente c’è qualcuno che può aiutarti”.
Così, passare al K2, o al Gasherbrun, è stato quasi automatico…
“Diciamo di sì. E’ stato il frutto dell’evoluzione del nostro gruppo. Nel 1991, alla prima spedizione non ho potuto partecipare perché ho voluto restare accanto a mio padre che si era ammalato. Hanno scalato il versante nord del K2. Nel 1994, un sacerdote di Bologna, Arturo Bergamaschi, ci ha invitati a unirsi a lui per ritentare la stesa impresa: ancora K2, versante nord. Non abbiamo completato la salita perché la nuova via che avevamo aperto non ce lo ha consentito. Comunque, siamo arrivati a quota 8450”.
Poi, quasi ogni anno, non ha più mancato l’appuntamento con gli ottomila. Al punto che, avendo saltato il ’97, nel ’98 e ’99 ne ha scalati ben tre, peraltro con pieno successo.
“E’ che ci ho preso giusto… Le avventure del ’95 e ’96, soprattutto l’ultima, sull’Everest, che ebbe condizioni proibitive, mi avevano messo alla prova. Il ’96 fu l’anno delle grandi disgrazie, ma noi, rimasti più sotto, non venimmo coinvolti. Fu più dura per i parenti rimasti a casa: temevano il peggio, perché non avevano nostre notizie. Nel ’99 è stato come al supermercato: paghi uno e prendi due. In una spedizione abbiamo scalato sia il Shisha Pangma, sia il Cho Oyu, entrambi in Tibet. Un’esperienza bellissima”.
Nell’agosto scorso, avete scalato il Gasherbrun 2, in Cina. Anche questa volta, avete dovuto rinunciare alla cima per le condizioni atmosferiche. Per la prima volta avevate un computer per comunicare.
“E’ stata una novità. Ci è servito per mandare e-mail. Anche questa volta, abbiamo scelto il versante più impegnativo, inviolato dagli europei, toccato solo dai giapponesi. Ma un’enorme frana ci ha impedito di proseguire, era troppo rischioso”.
Lei è cresciuta qui a Tarvisio, circondata dalle montagne. Per una sportiva come lei, l’alpinismo è stato un approdo naturale?
“No, perché qui non c’è una cultura alpinistica diffusa, come invece avviene in certe parti del Veneto, della Lombardia, del Piemonte. Qui è più difficile”.
A 39 anni, quanto pensa di continuare ad arrampicare?
“Non lo so. Ma ho conosciuto alpinisti con una bella età. Credo che lo farò finché ne avrò desiderio”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2001.

Queste le spedizioni di Nives Meroi
1994 K2 (Cina)
1995 Bhasirathi II (India)
1996 Everest (Cina)
1998 Nanga Parbat (Pakistan)
1999 Shisha Pangma (Tibet)
1999 Cho Oyu (Tibet)
2000 Gasherbrun 2 (Cina)

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