Sabrina Baracetti, la donna delle stelle

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E’ riuscita a portare il film che ha fatto più parlare di sé al Festival del cinema di Venezia, il divertente “Space cowboys” del leone Clint Eastwood, quasi in contemporanea con la prima sulla laguna. Per il Cinema Ferroviario, è la consacrazione di una stagione di grandi eventi, misurata da oltre 55 mila presenze in soli 8 mesi di programmazione. Un numero di spettatori eccezionale, che si avvia a battere il record di 70 mila 464, misurato nel ’99. Unito alla cifra di quanti si sono seduti davanti al mega schermo estivo del Giardino del Torso – ben 17 mila 187, in meno di tre mesi, con una media di 268 spettatori a serata, e considerato un luglio meteorologicamente disastroso -, si può tranquillamente affermare che sul Cec si appuntano ormai almeno 200 mila occhi ogni anno. Senza contare il Cinema sotto le stelle, altra grande idea del Cec, 32 piazze con proiettori itineranti o fissi – da Cussignacco a San Giovanni al Natisone -, in cui le visioni (130 nell’estate 2000) sono rigorosamemente gratuite e a ingresso libero. E poi le proiezioni per le scuole, le dispense didattiche, i corsi, le rassegne che hanno meritato critiche entusiastiche nei giornali nazionali, il rapporto privilegiato con i più grandi professionisti, come Dante Spinotti, fra i migliori direttori della fotografia al mondo. Non solo dunque un grande servizio pubblico culturale e d’intrattenimento, ma anche una solida professionalità nello studio e nella ricerca cinematografica, la capacità di creare eventi e di far parlare di sé in Italia e nel mondo, grazie a idee e progetti molto validi. Con un gioiello, il Far East Film, che è stato già definito “il terzo festival cinematografico italiano, dopo Venezia e Torino”.
Sabrina Baracetti presiede il Centro Espressioni Cinematografiche dal 1995, l’anno della svolta. Trentatrè anni, cresciuta a Codroipo, “dove non c’era neanche un cinema”, è lei la donna che fa sognare gli spettatori friulani. Ma il suo, ribadisce, è un lavoro di squadra. Schiva, poco amante dei riflettori (difficile trovare in archivio una foto in posa con qualcuno dei grandi attori e registi che ha portato in Friuli), in realtà se si sottrae agli onori, non è certo il tipo da rinunciare agli oneri di un’associazione che ormai fattura miliardi, pur rimanendo sostanzialmente un sodalizio culturale che si regge ancora in modo fondamentale sull’entusiasmo e sul volontariato. Infaticabile, raramente con un week-end libero, Sabrina si è dovuta trasformare in questi anni da storica e appassionata del cinema a manager e impresaria. Con un obiettivo: mentre sbarcano le multisale e i grandi distributori nazionali, mantenere la specialità del Cec, la sua programmazione originale, il rapporto privilegiato col pubblico. Un mestiere ancor più eccezionale se si pensa che è rimasta l’unica esercente cinematografica indipendente a livello locale: le sale udinesi sono state fagocitate da colossi come Filmauro e Medusa, ed è esterna al Friuli anche la regia della nuova multisala di Torreano di Martignacco.
Sabrina Baracetti, come è cominciato tutto questo?
“Mi stavo laureando in Storia del cinema a Trieste e, per la tesi, mi sono messa in contatto con Cinemazero di Pordenone. Era il 1989. Lì ho conosciuto un’associazione di notevole esperienza, con tanto entusiasmo, grande energia, soprattutto da parte del suo presidente, Paolo Colussi. Ho imparato molto da lui, il coraggio di avere grandi idee, di porsi obiettivi ambiziosi. Le sue Giornate del cinema muto sono ormai di fama mondiale. Un altro grande maestro è stato Alberto Farassino, docente a Trieste e critico. Mi ha trasmesso la passione per il cinema. Mi incoraggiò a lavorare sugli “Ultimi” di Turoldo, del quale lui, laico, come tanti altri milanesi, andava ad ascoltare le sferzanti prediche nella famosa messa di mezzogiorno che celebrava in Duomo”.
Il Cec esisteva già dagli anni Settanta e aveva avuto il merito di portare molti film di qualità in una piazza decentrata come Udine, dove le prime visioni arrivavano tre mesi dopo.
“Il Cec aveva già un buon patrimonio, riuniva le esperienze di persone con molto talento e capacità, che avevano saputo creare la tradizione del Cinema Ferroviario fra gli udinesi. C’erano Giorgio Placereani, Daniele Vidussi, Francesco Novello. Proponevano film di qualità, retrospettive, cineforum. Quando sono arrivata, il Cec stava vivendo una fase di ricambio generazionale, molti se ne andavano. Restava però una base importanta da cui partire. Arrivò anche Thomas Bertacche, col quale ho condiviso gran parte del lavoro di questi anni, e poi altri. Ci ponemmo subito nuovi obiettivi, più ambiziosi, diciamo, con un nuovo approccio. Non mettevamo in discussione i presupposti iniziali, ma volevano arrivare ad altri traguardi”.
Una bella scommessa, se si pensa che stavano trionfando i videoregistratori casalinghi e il futuro sembrava voltare le spalle al cinema inteso come esperienza collettiva. Ma voi, caparbi, avete insistito…
“Ho sempre avuto la consapevolezza che il cinema non morirà mai. Il cinema è conoscenza, è sogno, ha un forte valore di socializzazione, è magia. Cambia il suo modo di proporsi, l’offerta, ed è per questo che dovevamo, quando siamo partiti, caratterizzarci subito per qualcosa di speciale, una proposta che solo noi avremmo potuto offrire ai nostri spettatori. Ancora oggi, la ragione di esistere dei festival, o delle sale, sta nel mettere insieme un programma unico, con la presenza di esperti, riuscire a proporre anteprime, primissime, a creare eventi con la presenza dei protagonisti, a dotarsi di tutti i mezzi della moderna tecnologia che un privato non può permettersi. Da questo si capisce che gli spazi per muoversi sono enormi”.
Il nuovo corso del Cec fu inaugurato da Sordi, Monicelli e tanti altri. Come riusciste a portarli a Udine?
“Tenuto conto che, quell’anno, il contributo del Comune ammontava a 4 milioni e che avevamo ben poco in cassa, è stata una grande esperienza. Credo sia dipeso da come ci siamo proposti. Hanno creduto nella nostra idea: volevamo riscoprire, senza preconcetti, il cinema di quegli anni, portare alla luce pellicole denigrate o dimenticate. Poi, credo, li abbiamo contagiati col nostro entusiasmo. Eravamo convintissimi di ciò che stavamo facendo. Andammo a trovare tutti i protagonisti, Sordi a Roma, Carlo Croccolo a Napoli, per ricostruire quegli anni e invitarli. Sordi ci fece un sacco di domande: mi ricordo che quando entrò nella stanza dove lo aspettavamo, nello studio del suo agente, vicino a piazza Farnese, provai un’emozione grandissima, mi sembrò incredibile trovarmi davanti a lui. Poi è nata un’amicizia e a Udine venne altre tre volte. Gli piacque lo spirito del progetto: il cinema raccontato dai protagonisti”.
Nasce allora la rassegna “Cinema Italietta anni Cinquanta” e cominciaste a ottenere i titoli sui giornali nazionali.
“Fu un’idea a cui nessuno aveva pensato prima. C’era tanto da rivedere nel cinema di quegli anni, cose andate quasi perdute, film visionari e bellissimi, assolutamente originali, come Noi cannibali, di Antonio Leonviola, e poi grandi interpreti, come Claudio Gora, Silvana Pampanini. La nostra idea piacque anche ai critici. Ricordo la collaborazione con Lorenzo Codelli, che da allora è diventato un nostro consulente”.
E’ vero che nessuno pretese un cachet per la sua presenza, che offriste solo un rimborso spese?
“Certamente. Fu da subito uno dei nostri punti fermi: come un’associazione culturale non ritenevamo morale pagare un ingaggio. Il principio è sempre stato sempre rispettato. Per la rassegna Eurowestern, Giuliano Gemma lo pretese e noi rinunciammo alla sua presenza”.
Avevate invitato anche Gassmann.
“Certo, per la proiezione della Grande Guerra che tenemmo a Gemona a Cinema Sociale, con Sordi, Monicelli, Furio Scarpelli e tutti gli altri ospiti. Ma Gassmann era in uno dei suoi momenti di crisi. Ci disse che gli sarebbe piaciuto tanto esserci, ci ringraziò”.
Hai visto tanti film nella tua vita. Ma qual è il tuo preferito?
“Adesso mi piace molto il cinema di Hong Kong che, si badi bene, non è solo kung-fu”.
Cos’ha di speciale?
“E’ freschissimo, è senza compromessi, quando racconta un personaggio, lo fa fino in fondo, nel bene e nel male, senza pregiudizi, senza i moralismi tipici degli americani. Fanno commedie con pochi soldi, eppure riescono a far ridere anche noi europei, che abbiamo una cultura diversa. Perché sono ricche di idee”.
E il cinema italiano?
“Adesso, devo dire la verità, non mi piace molto. Ho amato tanto Visconti, Antonioni, poi Monicelli, Corbucci, Dino Risi, fra i più grandi. Oggi, in Italia, manca un prodotto medio che sia comunicativo. Prendiamo “Pane e tulipani”, un film tutto sommato mediocre, ma anche sa entrare in comunicazione con gli spettatori. La storia fa acqua, ma è già qualcosa. Apprezzo, per esempio, Mazzacurati, perché fa i film quando ha una storia da raccontare. E poi ci sono in grandi tecnici che hanno dovuto emigrare, come Dante Spinotti”.
E fra gli attori, chi preferisci?
“Russel Crowe. E poi Kevin Spacey. Voglio citare, tra i miei preferiti, anche il regista Curtis Henson, che ha diretto “L.A.Confidential”.
Siete rimasti gli unici esercenti cinematografici locali indipendenti. Come riuscite a fronteggiare la concorrenza di rivali come Filmauro del potente Aurelio De Laurentis, che ha acquistato l’udinese Sautec e le sue cinque sale o di Medusa del gruppo Berlusconi (Puccini) o dei veneti della nuova multisala di Martignacco?
“E’ una bella lotta. Ma adesso abbiamo molta più esperienza e un maggiore potere di acquisto. Inoltre, come indipendenti, possiamo pensare prima ai gusti del pubblico, poi agli interessi della società, è chiaro che De Laurentis porterà nelle sue sale prima i suoi film, poi gli altri. Noi siamo svincolati. Ma vogliamo essere ancora più competitivi, a favore del pubblico udinese, che ci segue. Per questo, contiamo su una sala più grande, per avere più mezzi e proporre sempre più visioni. Il cinema Asquini sarà ideale”.
Dalla vostra avete anche il sostegno degli enti locali: i Comuni, la Provincia e la Regione finanziano le vostre iniziative.
“Questo è vero, ma finora per la stragrande maggioranza dell’anno siamo esposti con le banche perché i contributi arrivano tardissimo. Inoltre, non abbiamo mai la sicurezza del domani. Anche il centro Asquini, progettato e proposto da noi e fatto proprio dal Comune di Udine, è di là da venire e la sua assegnazione non è sicura. Oggi, con un fatturato di un miliardo e 900 milioni, ancora non riusciamo a pagare le professionalità che qui si sono create come meriterebbero. Noi stessi del direttivo abbiamo un semplice contratto di consulenza. Cerchiamo di non gravare in alcun modo sui costi, per riversare tutto sulla produzione di eventi o sulla programmazione. Ma ancora non basta: il Far East Film ha un budget di 700 milioni, ma il resto lo copriamo a nostre spese: un festival del genere vale molto di più, Torino per esempio, costa 4 miliardi, Venezia molti, molti di più. Detto questo, sottolineo il contributo della Provincia e dei singoli Comuni per il cinema sotto le stelle, la Regione per i finanziamenti maggiori, anche per la futura sala Asquini, poi per le singole manifestazioni l’appoggio di Udine e degli altri enti”.
Perché non pensare anche agli sponsor privati? Il festival del cinema asiatico è un gran veicolo promozionale del Friuli e della sua produzione in tutto l’est.
“Certo. Ci abbiamo pensato subito, accorgendosi della grande attrattiva esercitata dalla regione in Asia durante i nostri viaggi. Udine è ormai una città nota da tutti a Hong Kong, città di 6 milioni di abitanti: porta prestigio, è di moda. Molti attori sono diventati tifosissimi del’Udinese che seguono via satellite e su internet. L’industria cinematografica è una cosa enorme in quei Paesi ed è molto seguita. Abbiamo pensato di trovare collaborazione con le industrie friulane, per esempio del Triangolo della sedia. Si potrebbe cominciare con le presentazioni del festival udinese che avverranno in autunno nei vari paesi asiatici. Finora non siamo riusciti a stabilire un contatto, forse non siamo stati capiti. Ma siamo fiduciosi per il futuro. Credo sia una grande occasione da non perdere”.
Avete fatto anche grandi investimenti: gli schermi nelle piazze, i proiettori, la stessa sala del Ferroviario è stata ristrutturata a vostre spese.
“Negli anni scorsi, ci siamo trovati in grande difficoltà, dovevamo adeguare il cinema secondo i severissimi criteri di sicurezza della legge e trovare una sede adeguata gli uffici per ospitare anche biblioteca, sala visione, e tutti i collaboratori che oggi abbiamo (una cinquantina in tutto, proiezionisti compresi) e le frequenti visite di studenti, studiosi, appassionati. E’ stato un notevole sforzo. Dobbiamo anche ringraziare la Sautec e il compianto Leo Mendes per l’ospitalità e la collaborazione che ci diede in certe occasioni. Anche il megaschermo dei giardini del Torso è nostro ed è veramente splendido. Poi ci sono altri schermi fissi, come San Giovanni al Natisone in un luogo ideale, e altri itineranti. Lo stesso vale per i proiettori, alcuni portatili, altri stabili. Il Ferroviario è il nostro tesoro, anche per come è stato magnificamente restaurato, ma è anche il nostro limite: i suoi soli 216 posti comprimono le nostre possibilità. La sua esistenza però è la nostra vita: grazie al Dopolavoro ferroviario, con Roberto Francescatto, che ci ha rinnovato la convenzione credendo in noi”.
Non è finita: fate anche scuola e promuovete in cinema in friulano. Poi c’è la collaborazione con l’Università.
“Abbiamo queste due sezioni, molto vitali. La Mostre dal cine furlan, seguita da Fabiano Rosso, esiste da anni. Così è per la collaborazione con le scuole, curiamo le dispense, teniamo corsi per insegnanti, effettuiamo proiezioni. Di questo si occupa molto bene Giulia Cane, e d’altro canto la scuola stessa capisce sempre più la funzione educativa determinante del cinema. E noi cerchiamo di costruire il pubblico del futuro. Con l’Università e assieme a Cinemazero e alla Cineteca del Friuli produciamo la rassegna Lo sguardo dei maestri: per Bunuel, portammo tutte e 33 le sue opere, in pellicola originale, intrecciando collaborazioni con cineteche di tutto il mondo”.
E’ vero che ricevete molte domande di lavoro?
“Sì, da parte di giovani. Vorremmo accontentarli, vorremmo anche fare formazione. La realtà è che qui manca una scuola di cinema, un centro che crei specifiche professionalità. E’ un peccato che si debba sempre andare fuori regione”.
Tu sei rimasta qui. E’ stato più difficile o più facile che andarsene dal Friuli?
“Più difficile, anche se lo rifarei e sono molto soddisfatta di ciò che ho costruito. Ma, come dicevo, vivo ancora nella precarietà, non si può certo dire che ho un lavoro sicuro. E non ho un minuto libero. Andare via? Sarebbe bastato un attimo. Ho amici che, con la mia stessa formazione, oggi vivono lontano, all’estero. E con piena soddisfazione professionale”.
Ti sei laureata con una tesi sul film “Gli ultimi” di Turoldo. Cosa rimane di quell’esperienza nella vita di oggi?
“Più che una ricerca di tipo filologico, la mia tesi voleva dimostrare come un sogno può realizzarsi. Turoldo, negli anni Settanta, riesce a fare un film ingaggiando professionisti e portandoli in un posto sperduto del mondo, il Friuli di allora. Il film non fu capito, era troppo avanti per quegli anni, riscopriva un mondo contadino che la gente voleva ancora dimenticare. Ma era un grande film, come scrissero Pasolini, Ungaretti. Ecco, qui al Cec c’è questa capacità di sognare: non ci siamo mai sentiti piccoli, friulani e, dunque, periferici. Abbiamo sempre puntato in alto, abbiamo creduto in cose che sembravano sogni, e poi le abbiamo realizzate. Certo, a volte ci dobbiamo scontrare con la dura realtà, con chi non ha questa visione”.
Per esempio?
“I politici. Ai politici manca la voglia di sognare. E allora diventa tutto più difficile”. Ma adesso a Udine c’è un grande progetto: il Nuovo Cinema Asquini: una multisala realizzata da Comune che ha accolto la vostra idea.
“L'”Asquini” è una cosa molto bella e noi stiamo lavorando per quando nascerà, ovviamente se ne otterremo la gestione. Avrà tre sale, una per grandi proiezioni, le altre per retrospettive o cinema d’essai. Dovrà essere aperto al multimediale e tecnologicamente avanzato. Con il nostro progetto, potrà autofinanziarsi con la vendita dei biglietti. Potrà diventare un polo dedicato alla cutura cinematografica. Siamo disposti a mettere a disposizione il nostro archivio (oltre 2 mila film) e la nostra biblioteca (mille titoli) come patrimonio che potrà diventare di tutta la città. Certo, i tempi sembrano ancora lunghi, ma l’opera è già interamente finanziata. Il sindaco Cecotti ci ha promesso che sarà realizzata entro il suo mandato”.
Hai trovato difficoltà in questi anni per affermarti? C’è qualcosa che non ti è piaciuto?
“Per una donna è molto più difficile, inutile negarlo. Anche il cinema è un mondo maschile, sia sul set, sia nel campo della produzione e distribuzione. Devi mostrare un comportamento molto professionale, devi convincere molto di più. Ci manca quella sorta di cameratismo maschile, noi non possiamo concludere un affare con una pacca sulla spalla. Ed è faticoso. All’estero, invece, ci sono molte donne nei posti chiave. Qui ci sono pochissime registe, e siamo quasi ovunque escluse dai ruoli dirigenziali. Forse, si dirà, perché non siamo brave, ma io credo ci sia anche una sorta di autocensura, di fronte a tanta fatica. Eppure io nelle donne vedo una marcià in più, più visione strategica, una maggiore praticità. Insomma, siamo delle brave massaie anche nel lavoro, forse. Ma il nostro sguardo è più raffinato, coglie le sfumature”.
Quali obiettivi restano da raggiungere con il Cec?
“Tra i nostri compiti statutari c’è anche la produzione cinematografica. Finora non ci siamo riusciti. Ma vorrei tanto, in un futuro non tanto lontano, quando potremo contare su una maggiore tranquillità economica, convogliare le nostre energie e professionalità in un film prodotto da noi. Una pellicola di qualità, qualcosa d’importante. Un altro obiettivo finora mancato è recuperare “Gli ultimi”. In Friuli esiste un’unica copia alla Cineteca. Vorremmo acquisire i diritti, per ristamparlo, e distribuirlo. Ora, in queste condizioni, è come se fosse morto”.
E i prossimi obiettivi personali?
“Vorrei un figlio. Ma, adesso, appare impossibile. Praticamente, vivo qui in ufficio. Oppure in viaggio. Però ci penso: non vorrei essere una mamma troppo vecchia… Ma no, non se ne parla nemmeno: ho troppi impegni”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2001

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