Gibellina e il Friuli chiamano l’Abruzzo

Sono friulana, sono una figlia del terremoto. Ero una bambina quando nel 1976 una scossa squassò per quasi un minuto il buio di una insolitamente calda sera di maggio. Quel giorno, era il 6, morirono quasi in mille e decine di migliaia furono le case distrutte, le famiglie devastate. A casa mia, per fortuna, non successe quasi nulla: si spensero le luci, caddero la tv e i soprammobili, mi abbracciai stretta a mia sorella e mia zia mentre un boato sotterraneo annullava e assorbiva tutti gli altri rumori. I miei genitori erano appena usciti per andare fuori a cena. Mia madre disse di aver visto i sette piani del palazzo oscillare e piegarsi in avanti quasi come se stessero per crollarle addosso con noi dentro. Non avevo ancora l’età della consapevolezza per restare segnata dalla tragedia che colpì la mia terra, ma da allora per me nulla è stato più come prima.

Mi è tornato tutto alla mente pensando alla tragica morte, avvenuta il 7 agosto, di Ludovico Corrao, l’ex sindaco padre della ricostruzione di Gibellina, in Sicilia, uno dei paesi distrutti dal terremoto del Belice, nel 1968. Sono andata a visitarla l’anno scorso, Gibellina. Sia quella vecchia, che oggi è una gigantesca opera di land-art, il Cretto, di Alberto Burri, che trasuda dolore e bellezza; sia quella nuova, sorta a 20 chilometri di distanza, che è diventata un museo a cielo aperto con monumenti, sculture e palazzi creati da grandi artisti e architetti. Una ricostruzione dibattuta, criticata, ma comunque eccezionale nel suo slancio ideale per ciò che ha creato e lasciato.

Anche il Friuli è stato ricostruito, ma secondo un principio diverso: quello “pietra su pietra”, cercando, con certosina pazienza ed eccezionale dedizione, di cancellare le tracce della morte e della distruzione rimettendo ogni chiesa, ogni casa, ogni strada e ogni piazza al suo posto. Sperando in questo modo che poi si ricostruissero anche i cuori. Un modello che ha fatto scuola: da tutto il mondo sono venuti a studiare, copiare la rinascita friulana.

Mi sono commossa a Gibellina, vedendo le opere di un artista friulano, Carlo Ciussi, caro amico di mio padre, donate in quegli anni dolenti. E mi commuovo ogni volta che vedo i paesi feriti del Friuli ricostruito. Quanta forza, quanta energia, quanta sofferenza, ma anche quanta gioia a rinascere dalle macerie più belli e robusti di prima! Sono stati due modi diversi di reagire al terremoto, quelli di Gibellina e del Friuli. Ma entrambi sono simboli di che cosa significhi riunire i talenti locali per trasformare una grande disgrazia in opportunità, per onorare chi non c’è più e premiare chi è rimasto. Perché in queste circostanze niente è più imperdonabile di un’occasione sprecata, di una sola vittima morta invano.

Per questo, quando vedo L’Aquila due anni e mezzo dopo il sisma del 6 aprile ancora in macerie, dimenticata dalla cronaca, circondata da anonime “new town” dove la gente ha sì un tetto ma forse non ha più un’anima, dove non mi risulta sia stato chiamato un concorso di talenti e di idee per la sua ricostruzione, mi viene rabbia. È grave non imparare dai propri errori, ma lo è ancora di più scordarsi degli esempi virtuosi che l’Italia può offrire. Gibellina e il Friuli chiamano l’Abruzzo. Speriamo che qualcuno risponda.

Donna Moderna, 24 agosto 2011

 

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