Passare la notte svegli

“ La lettura più bella della quarantena!” Andrea

Ciao Alessandra con questo virus che c’è in giro ho iniziato a leggere da poco e come secondo libro dopo ventimila leghe sotto i mari ho deciso di leggere il tu, io cammino da sola.
Mi è piaciuto molto al punto di passare la notte sveglio continua a leggere...

Condividi su

Vi piace? Esce il 20 aprile

 

“Un giorno mi sono detta: devo affrontare la solitudine, guardarla in faccia, marciare, inciampare e sacramentare con lei. Sviscerarla, sventrarla, affondarci le mani”.

“Comincia così un duro viaggio in compagnia dei tuoi demoni. Sei una bambina tormentata, un’adolescente infelice, una ragazza attraversata da sofferenza e dolore. Fai carriera, hai successo, eppure stai male. Incontri la morte e non riesci a guardarla negli occhi. Potresti dare la vita e scegli di non farlo”.

“Un viaggio interiore, dove ogni passo è diretto non tanto a una meta quando alla scoperta di sé”

“Cercare il proprio posto nel mondo, dare un senso alla vita”

“Io cammino da sola è il libro che ogni spirito solitario dovrebbe leggere”.

Condividi su

Gibellina e il Friuli chiamano l’Abruzzo

Sono friulana, sono una figlia del terremoto. Ero una bambina quando nel 1976 una scossa squassò per quasi un minuto il buio di una insolitamente calda sera di maggio. Quel giorno, era il 6, morirono quasi in mille e decine di migliaia furono le case distrutte, le famiglie devastate. A casa mia, per fortuna, non successe quasi nulla: si spensero le luci, caddero la tv e i soprammobili, mi abbracciai stretta a mia sorella e mia zia mentre un boato sotterraneo annullava e assorbiva tutti gli altri rumori. I miei genitori erano appena usciti per andare fuori a cena. Mia madre disse di aver visto i sette piani del palazzo oscillare e piegarsi in avanti quasi come se stessero per crollarle addosso con noi dentro. Non avevo ancora l’età della consapevolezza per restare segnata dalla tragedia che colpì la mia terra, ma da allora per me nulla è stato più come prima.

Mi è tornato tutto alla mente pensando alla tragica morte, avvenuta il 7 agosto, di Ludovico Corrao, l’ex sindaco padre della ricostruzione di Gibellina, in Sicilia, uno dei paesi distrutti dal terremoto del Belice, nel 1968. Sono andata a visitarla l’anno scorso, Gibellina. Sia quella vecchia, che oggi è una gigantesca opera di land-art, il Cretto, di Alberto Burri, che trasuda dolore e bellezza; sia quella nuova, sorta a 20 chilometri di distanza, che è diventata un museo a cielo aperto con monumenti, sculture e palazzi creati da grandi artisti e architetti. Una ricostruzione dibattuta, criticata, ma comunque eccezionale nel suo slancio ideale per ciò che ha creato e lasciato.

Anche il Friuli è stato ricostruito, ma secondo un principio diverso: quello “pietra su pietra”, cercando, con certosina pazienza ed eccezionale dedizione, di cancellare le tracce della morte e della distruzione rimettendo ogni chiesa, ogni casa, ogni strada e ogni piazza al suo posto. Sperando in questo modo che poi si ricostruissero anche i cuori. Un modello che ha fatto scuola: da tutto il mondo sono venuti a studiare, copiare la rinascita friulana.

Mi sono commossa a Gibellina, vedendo le opere di un artista friulano, Carlo Ciussi, caro amico di mio padre, donate in quegli anni dolenti. E mi commuovo ogni volta che vedo i paesi feriti del Friuli ricostruito. Quanta forza, quanta energia, quanta sofferenza, ma anche quanta gioia a rinascere dalle macerie più belli e robusti di prima! Sono stati due modi diversi di reagire al terremoto, quelli di Gibellina e del Friuli. Ma entrambi sono simboli di che cosa significhi riunire i talenti locali per trasformare una grande disgrazia in opportunità, per onorare chi non c’è più e premiare chi è rimasto. Perché in queste circostanze niente è più imperdonabile di un’occasione sprecata, di una sola vittima morta invano.

Per questo, quando vedo L’Aquila due anni e mezzo dopo il sisma del 6 aprile ancora in macerie, dimenticata dalla cronaca, circondata da anonime “new town” dove la gente ha sì un tetto ma forse non ha più un’anima, dove non mi risulta sia stato chiamato un concorso di talenti e di idee per la sua ricostruzione, mi viene rabbia. È grave non imparare dai propri errori, ma lo è ancora di più scordarsi degli esempi virtuosi che l’Italia può offrire. Gibellina e il Friuli chiamano l’Abruzzo. Speriamo che qualcuno risponda.

Donna Moderna, 24 agosto 2011

 

Condividi su

Altan: “Viva la satira libera”

ALTAN_foto-1-638x425

“La satira? Chi la fa deve prendere posizione. Quando funziona bene è perché c’è una parte assunta con coscienza. Il discorso dei 360 gradi mi pare presuntuoso. Non ci credo. Diventa un esercizio permanente di accademia, perde di sapore “.
Volete ridere? Dimenticatevi della par condicio.
Parola di Altan.
Che assolve anche la volgarità: “Il linguaggio dev’essere più o meno quello. La satira ha bisogno di elementi forti per esprimersi. E poi la gente parla così”.
Detto questo, è chiaro che non tutti hanno la mano felice del vignettista friulano, che riesce a essere pungente senza offendere, acuto, sottile, ma mai troppo volgare. Altan una posizione ce l’ha. E irresistibile lo è da sempre, da quando le sue donne voluttuose adagiate sui divani sentenziavano sui mali dell’Italia sulle prime pagine dell’Espresso. Ora anche su “Repubblica” quegli omini frustrati, un po’ stralunati, da soli o in coppia, riescono sempre a sollevarci dalle umane povertà, magari per un attimo.
Ci sono poi i Berlusconi, gli Andreotti, c’era Craxi, che, trasfigurati dalla sua penna, diventano modelli di italiani qualunque, di elettori più che di eletti, che parlano magari al figliolo, al macellaio. Volete fare una ripassata? A maggio uscirà “Anni frolli”, raccolta delle vignette del passato prossimo, le stampa Einaudi.
Viva la satira, dunque, ma quella vera, quella libera. Anche se, in tempi di censure e di vere o presunte par condicio, e con le elezioni alle porte, fare dell’ironia rischia di diventare un mestiere da misurare col bilancino.
“Ma è incompatibile. E’ un po’ come la Procura che chiede i testi di Eminem. Assurdo. Si vorrebbe applicare la par condicio a personaggi che per loro stessa natura sono di parte. E poi, in una situazione politica come quella di oggi ci si tende a dividere per schieramenti.
Anche i giornali americani scelgono una linea, non vedo perché non dovremmo farlo noi”.
Altan non ha paura delle querele. “Veramente non ne ho mai ricevute. Ma il mio modo di fare satira quasi sempre prescinde dal fatto in sé, dunque è meno attaccabile. E poi, a me interessa ciò che rimane di quel fatto, quello che produce nel dibattito, come cambia l’atmosfera”. Per questo, le sue vignette non nascono tutti i giorni. “Non credo riuscirei a farne più di 2-3 la settimana. Non le faccio sul momento. Se ho un po’ di tempo affinché le cose si depositino, mi vengono meglio”. Di amici vignettisti ne ha qualcuno, s’incontrano di tanto in tanto ai premi e alle mostre, e se deve dire chi è il migliore non ha esitazioni: “Elle Kappa. Per il quotidiano è la più brava di tutti”.

Altan, però, un impegno che lo prende quotidianamente ce l’ha, ed è con la Pimpa, la cagnolina bianca a pallini rossi che ormai firma un mensile, un trimestrale, un sito e svariati altri gadget per la Franco Cosimo Panini. Migliaia di abbonamenti e di fedelissimi, al punto che, se, per raggiunti limiti di età, un ragazzino decide di disdire l’abbonamento, scrive tutto dispiaciuto che sì, è diventato grande, ma che lo raccomanderà al fratellino, o al vicino di casa, e che porterà la Pimpa sempre fra i ricordi più cari. Altan legge e ringrazia. Poi, magari s’ispira per qualcuna delle sue storie.
Perché il mondo di Altan è un po’ singolare: molto nasce da ispirazioni familiari – la Pimpa nacque alla fine degli anni settanta per far divertire la figlia, le languide donne sui sofà ricalcano la sensualità di Mara, sua moglie – e nella grande casa colonica di famiglia ad Aquileia, Bassa friulana, a pochi chilometri dalla laguna, Altan sembra più in dorato isolamento che nel cuore pulsante della cronaca da cui trae le sue fulminanti battute. Eppure qui coltiva tutte le informazioni che gli servono. Le sue fonti, ammette, “non sono di prima mano, ma forse è proprio per questo che la gente trova sintonia con i miei personaggi: perché dicono cose che tutti pensano, e nascono dalla quotidiana osservazione di fonti che hanno più o meno tutti. Vivendo qui, mi mancano completamente le cosiddette informazioni di corridoio, ma non mi servono. Preferisco una chiaccherata con gli amici”. Poi c’è la tv, che guarda “abbastanza”, mentre Internet “mi serve per lavorare (disegna le vignette a mano, usa il computer per dipingerle – “Corrisponde di più alla resa che poi hanno sul giornale” – e inviarle). A volte parlo con persone che trovano significati reconditi nelle frasi che metto in bocca ai miei personaggi, citandomi indiscrezioni e interpretazioni di vicende politiche che assolutamente ignoro”.
Consapevole della responsabilità? Far sorridere gli italiani a volte è difficile, ma serve. “Gli spunti non mancano. Intanto, ci sono i politici, che le sparano talmente grosse… Poi c’è la realtà italiana che ha tante novità ma altrettante costanti: il voltagabbanismo, la frammentazione, il masochismo della sinistra. L’italiano è un popolo che ha la memoria cortissima per certe cose, e per questo continua a ripetere certi errori, ce l’ha invece indistruttibile per altre. E allora si porta dietro questioni, conflitti, persino dai tempi del Medievo”.
Destino di un umorista, che l’Italia ha dovuto sceglierla proprio in virtù di questa sua particolarissima abilità. “Andai a vivere in Brasile, partii con un amico che faceva cinema, avevo poco più di vent’anni. Fu un impatto fortissimo. Ancora oggi, ci vado quando posso, è la mia seconda casa”. A Rio de Janeiro è rimasto 6 anni, ha conosciuto Mara. Ci sarebbe rimasto a vivere per sempre. Ma aveva cominciato a disegnare le vignette: “Era quello che sapevo fare, sinceramente non credevo che sarebbe diventato il mio primo lavoro. Ma dall’estero era troppo difficile calarsi nella realtà italiana, rientrai, prima Milano, poi qui in Friuli, dove ho riaperto la casa che era di mio nonno”.
Tra tanti personaggi che ha creato, ci sono anche i preferiti. “Mi divertono molto le coppie padre e figlio, madre e figlia. Di solito, quello che è seduto in poltrona rispecchia un po’ il mio stato d’animo, ciò che direi io”.
E il disegno? Le tue immagini spesso diventano icone moderne: le mettiamo sui frigoriferi, nei diari. “Il disegno contava di più all’inizio. Ci pensavo molto. Adesso è molto più spontaneo, anche più essenziale. A volte mi accade una cosa strana: disegno una faccia che non corrisponde a ciò che volevo. Ma quella faccia che mi ha tradito mi suggerisce un’altra battuta, più divertente della prima. E’ un po’ come se il personaggio mi guidasse la penna, mi dicesse cosa fare. E spesso ha ragione”.

Alessandra Beltrame

Condividi su

Ulderica Da Pozzo, fotografa con l’anima

11-ulderica-da-pozzo-07

“Non è assolutamente portata per le materie artistiche”, scrisse il maestro. Allora Ulderica non fotografava ancora, i suoi erano disegni. “Mi piacevano i colori. Adoperavo sempre colori molto forti. “Tu pitturi come un maschio”, le aveva detto lo stesso maestro. In effetti, la ragazza di Ravascletto era forte anche di tempra. Non si scoraggiò: chiese ai genitori di mandarla al liceo artistico a Venezia. Fu però la famiglia a frenarla: la strada era lunga, proposero un compromesso. “Risposi: o Venezia o niente. Mi rifiutai di andare a Tolmezzo. Così a 15 anni andai a lavorare. Ripensandoci è stato un capriccio, ma ero fatta così. Ero aggressiva. Aggressiva e timida”.
Ancora oggi, che ha 42 anni, Ulderica Da Pozzo conserva quella natura un po’ ribelle, quell’impulsività che però certe sue foto, così nitide, così composte, sembrano non rivelare. Invece non è vero, perché, a ben guardare, le sue immagini mostrano, a chi le osservi per una seconda volta, quel guizzo, quell’intuizione – un certo sguardo, una certa luce, l’accostamento insolito fra cose all’apparenza incompatibili – che quasi le trasfigurano, mettendo un che di irreale nella realtà di ciò che appare. E’ questo il risultato che preferisce.
“Se potessi, fotograferei con gli occhi”, dice Ulderica, perché sa che le sensazioni di un attimo poi passano. E le sue sono sensazioni, visioni, quasi preveggenze, non comuni. Ha appena pubblicato un servizio dedicato al Friuli sulla rivista “Dove”, per cui lavora da tempo. Ad aprile (la vernice è il 28) il Craf di Spilimbergo ospita la personale “Il sogno delle cose” nella Villa Ciani di Lestans. Nel primo caso, il reportage non lascia molto spazio all’estro, privilegiando invece la tecnica; nel secondo, una mostra di immagini scattate nelle vecchie case di Carnia, l’occhio dell’artista sublima i luoghi, i soggetti, creando un mondo a sé, quasi surreale.
Eravamo rimasti a quando, a 15 anni, hai lasciato la scuola per andare a lavorare in un supermercato.
Erano i primi anni Settanta. Mi sono comprata una Kodak Pocket Instamatic, le avevamo tutti in quegli anni. Faceva foto orribili, ma io mi divertivo lo stesso. Siccome facevo il jolly, sostituendo i colleghi assenti, avevo la possibilità di girare e allora fotografavo. Ma non è durata molto perché a 18 anni mi sono licenziata.
Perché volevi fare la fotografa.
Certo. Anche se a Ravascletto le prospettive non erano delle migliori. Ho chiesto un finanziamento a tasso agevolato. I primi anni sono stati durissimi. Facevo la “scattina” sullo Zoncolan per i turisti, avevo i debiti da pagare. Insomma non era proprio quello che avrei voluto fare. Mi ero anche un po’ avvilita”.
Intanto però a Venezia ci sei andata.
Sì, il primo corso di fotografia l’ho fatto a Palazzo Fortuny con Oliviero Toscani. Avevo mandato il materiale attraverso una rivista e mi hanno presa. Era un corso gratuito, due settimane. E’ stata la prima esperienza fuori dai confini locali. Qui frequentavo i fotografi di paese, e certe cose a Ravascletto me le sognavo.
Quando sono cominciati i lavori più importanti?
“Dopo un po’ che facevo la scattina, ho avuto l’occasione di fare la mia prima mostra, all’albergo La Perla. Poi è venuto il primo lavoro, con Ferruccio Montanari, per la Comunità montana.

Mamma casalinga, papà piccolo imprenditore. Ma in famiglia c’era uno
continua a leggere...

Condividi su

Sabrina Baracetti, la donna delle stelle

Sabri4

E’ riuscita a portare il film che ha fatto più parlare di sé al Festival del cinema di Venezia, il divertente “Space cowboys” del leone Clint Eastwood, quasi in contemporanea con la prima sulla laguna. Per il Cinema Ferroviario, è la consacrazione di una stagione di grandi eventi, misurata da oltre 55 mila presenze in soli 8 mesi di programmazione. Un numero di spettatori eccezionale, che si avvia a battere il record di 70 mila 464, misurato nel ’99. Unito alla cifra di quanti si sono seduti davanti al mega schermo estivo del Giardino del Torso – ben 17 mila 187, in meno di tre mesi, con una media di 268 spettatori a serata, e considerato un luglio meteorologicamente disastroso -, si può tranquillamente affermare che sul Cec si appuntano ormai almeno 200 mila occhi ogni anno. Senza contare il Cinema sotto le stelle, altra grande idea del Cec, 32 piazze con proiettori itineranti o fissi – da Cussignacco a San Giovanni al Natisone -, in cui le visioni (130 nell’estate 2000) sono rigorosamemente gratuite e a ingresso libero. E poi le proiezioni per le scuole, le dispense didattiche, i corsi, le rassegne che hanno meritato critiche entusiastiche nei giornali nazionali, il rapporto privilegiato con i più grandi professionisti, come Dante Spinotti, fra i migliori direttori della fotografia al mondo. Non solo dunque un grande servizio pubblico culturale e d’intrattenimento, ma anche una solida professionalità nello studio e nella ricerca cinematografica, la capacità di creare eventi e di far parlare di sé in Italia e nel mondo, grazie a idee e progetti molto validi. Con un gioiello, il Far East Film, che è stato già definito “il terzo festival cinematografico italiano, dopo Venezia e Torino”.
Sabrina Baracetti presiede il Centro Espressioni Cinematografiche dal 1995, l’anno della svolta. Trentatrè anni, cresciuta a Codroipo, “dove non c’era neanche un cinema”, è lei la donna che fa sognare gli spettatori friulani. Ma il suo, ribadisce, è un lavoro di squadra. Schiva, poco amante dei riflettori (difficile trovare in archivio una foto in posa con qualcuno dei grandi attori e registi che ha portato in Friuli), in realtà se si sottrae agli onori, non è certo il tipo da rinunciare agli oneri di un’associazione che ormai fattura miliardi, pur rimanendo sostanzialmente un sodalizio culturale che si regge ancora in modo fondamentale sull’entusiasmo e sul volontariato. Infaticabile, raramente con un week-end libero, Sabrina si è dovuta trasformare in questi anni da storica e appassionata del cinema a manager e impresaria. Con un obiettivo: mentre sbarcano le multisale e i grandi distributori nazionali, mantenere la specialità del Cec, la sua programmazione originale, il rapporto privilegiato col pubblico. Un mestiere ancor più eccezionale se si pensa che è rimasta l’unica esercente cinematografica indipendente a livello locale: le sale udinesi sono state fagocitate da colossi come Filmauro e Medusa, ed è esterna al Friuli anche la regia della nuova multisala di Torreano di Martignacco.
Sabrina Baracetti, come è cominciato tutto questo?
“Mi stavo laureando in Storia del cinema a Trieste e, per la tesi, mi sono messa in contatto con Cinemazero di Pordenone. Era il 1989. Lì ho conosciuto un’associazione di notevole esperienza, con tanto entusiasmo, grande energia, soprattutto da parte del suo presidente, Paolo Colussi. Ho imparato molto da lui, il coraggio di avere grandi idee, di porsi obiettivi ambiziosi. Le sue Giornate del cinema muto sono ormai di fama mondiale. Un altro grande maestro è stato Alberto Farassino, docente a Trieste e critico. Mi ha trasmesso la passione per il cinema. Mi incoraggiò a lavorare sugli “Ultimi” di Turoldo, del quale lui, laico, come tanti altri milanesi, andava ad ascoltare le sferzanti prediche nella famosa messa di mezzogiorno che celebrava in Duomo”.
Il Cec esisteva già dagli anni Settanta e aveva avuto il merito di portare molti film di qualità in una piazza decentrata come Udine, dove le prime visioni arrivavano tre mesi dopo.
“Il Cec aveva già un buon patrimonio, riuniva le esperienze di persone con molto talento e capacità, che avevano saputo creare la tradizione del Cinema Ferroviario fra gli udinesi. C’erano Giorgio Placereani, Daniele Vidussi, Francesco Novello. Proponevano film di qualità, retrospettive, cineforum. Quando sono arrivata, il Cec stava vivendo una fase di ricambio generazionale, molti se ne andavano. Restava però una base importanta da cui partire. Arrivò anche Thomas Bertacche, col quale ho condiviso gran parte del lavoro di questi anni, e poi altri. Ci ponemmo subito nuovi obiettivi, più ambiziosi, diciamo, con un nuovo approccio. Non mettevamo in discussione i presupposti iniziali, ma volevano arrivare ad altri traguardi”.

Una bella scommessa, se si pensa che stavano trionfando i videoregistratori
continua a leggere...

Condividi su

Nives Meroi, lady Ottomila

nives erri

 

Anche il matrimonio lo ha fatto ad alta quota: sulla Cordillera Blanca, in Sudamerica. Non fu che una specie di allenamento: vette ben più alte l’aspettavano. Ma per Nives Meroi, unica alpinista italiana in attività ad aver raggiunto la cima di tre “ottomila”, mettere la bandiera sulla sommità della montagna non è mai stato il fine. Avesse voluto, avrebbe scelto i versanti più facili. Insomma, più che i record, le piacciono le sfide. Con la natura, con sé stessa, con i pregiudizi. Che sono ancora tanti. E dopo aver conosciuto le storie delle donne del Pakistan sfigurate dai mariti con l’acido, riconosce che le discriminazioni di cui le donne alpiniste sono oggetto pure oggi, non sono che una infinitesimale parte del problema.
Altro che ottomila. Quello, in confronto, è il paradiso: silenzio assoluto, necessità di ascoltare il proprio corpo in ogni momento, rapporti umani intensi, solidarietà al massimo, concentrazione totale verso la missione, confronto con gli elementi in forma pura. Una condizione che “ti mangia le energie”, ma anche che “ti riconcilia con la tua essenza”, perché “non hai distrazioni”. Oddio, è roba per persone forti: dopo i 4-5 mila neanche un fiorellino rallegra il paesaggio. Ma vuoi mettere con “quelle vastità incredibili, quegli spazi infiniti”? Una condizione “teraupeutica”, sintetizza Nives Meroi, della quale, dice candidamente, “non posso più fare a meno”.
Ma come si vive a quota ottomila?
“In modo molto difficile. Certamente il nostro corpo non è fatto per quell’altitudine. Nessun essere umano si può adattare. Anche gli abitanti di Nepal, Pakistan giungono a risiedere al massimo a 4 mila, 4 mila 500 metri. Per questo, i giorni di avvicinamento servono ad adattare il fisico alle quote sempre maggiori. Ma, attenzione: non bisogna fermarsi troppo. Perché all’altitudine ci si abitua ma il fisico degenera. La carenza di ossigeno ti consuma. Il sangue diventa come melassa, il rischio di trombosi, edemi, è attuale, come quello di congelamento, anche senza particolari freddi. Tutte le funzioni vitali subiscono un eccezionale rallentamento, anche i ragionamenti diventano lentissimi”.
Le è capitato di fermarsi, di dire basta, non ce la faccio più?
“No, ho rinunciato a raggiungere la cima soltanto perché le condizioni atmosferiche o gli eventi lo hanno reso ragionevolmente impossibile. Ma può accadere in qualsiasi momento che il corpo non ce la faccia più, a quei livelli. E quando uno di noi si rende conto che non ce la fa, che il suo fisico non è più in grado di proseguire, deve dire basta”.
Vi aiutate con le bombole di ossigeno?
“No. Adesso sta prendendo piede la moda di fare le spedizioni con le bombole. Non è il mio tipo di alpinismo. Non abbiamo mai usato bombole, non ci interessa. Non ci interessa fare parte di questa società “no-limits”, orientata la business, al record a ogni costo, perché vende”.
Le spedizioni però costano. Come vi finanziate?
“Basicamente da soli, mettendo da parte tutto quello che guadagnamo lavorando, per investirlo in attrezzature, trasporti, visti per salire sulle cime”.
Visti per le cime?
“Certo, Paesi come Pakistan, Cina, Nepal, contano molto sugli introiti di chi va a scalare le loro montagne. Per poter arrampicare, paghiamo una tassa, che incide abbastanza sul budget complessivo”.
Come si concilia il lavoro con l’alpinismo professionistico?
“Abbastanza male, almeno nel mio caso. Per mio marito, che è guardia forestale, è più facile. Lavorare in un ufficio, quando ti devi assentare per un paio di mesi almeno d’estate e poi ha gli allenamenti e tutto il resto, è molto difficile. Al punto che ho deciso di lasciarlo per dedicarmi di più anche alla divulgazione delle nostre attività. Certo, è stata una rinuncia, a tutti fa comodo un po’ più di denaro, ma la mia è stata una scelta di vita. Pazienza, mi comprerò qualche bel vestito in meno”.

Anche alle alpiniste piace
continua a leggere...

Condividi su

Giuliana Pozzo

Interviste alle donne del Friuli Venezia Giulia.

Da tempo, hanno una tribuna riservata vicino alla curva sud. Alla quale accedono agevolmente con le carrozzelle. “Quando ho cominciato a occuparmi dell’Udinese, mi è sembrato doveroso pensare ai nostri tifosi meno fortunati”. La tribuna per i disabili non è l’unico impegno di Giuliana Pozzo nel campo della solidarietà, ma ne è certo l’esempio più visibile. Soprattutto dopo la vergogna di Rotterdam, alla finale degli Europei, dove ci si è dimenticati di trovare uno spazio per i portatori di handicap, con le conseguenze che tutti hanno visto. “Il calcio è un enorme veicolo di promozione di molte cose. La capacità, attraverso di esso, di produrre iniziative di solidarietà, mi ha colpito fin da subito. Di tutto ciò che faccio per l’Udinese, è la mia fonte di maggiore soddisfazione”, spiega la tenace signora del calcio friulano, la cui immagine appare in verità più vicina a quella di un’energica donna manager che di una benefattrice. Eppure, questo saper coniugare la potenza della società di famiglia a risultati non solo sportivi le è valso il Guerin d’oro, mentre il suo esempio fa scuola: società come Parma e Lazio hanno di recente chiesto consigli su come convogliare le loro energie per nobili finalità ad alto contenuto d’immagine. Come il premio Eurochampion, altra abilissima operazione commerciale che fa da volano alla promozione della regione nel mondo. Dietro a tutto questo, c’è ancora lei.
Difficile però inquadrare Giuliana Linda, sposata Pozzo. Questo è forse il suo primo ritratto completo per il quale ha accettato di posare, lei fra le prime donne protagoniste di questo Friuli degli ultimi anni, un Friuli rampante, aggressivo, passionale, di certo non ripiegato su se stesso. Un ritratto a molte facce, dalla manager alla madre affettuosa, dalla commerciante alla donna che sa commuoversi. Ma che cerca di non mollare mai. Confessa di non aver resistito all’ennesima replica di “Via col vento” alla tv e ne trae un commento: “Nella vita vorremmo essere tutte un po’ Rossella O’Hara e avere il sopravvento quando il mondo maschile tenta di schiacciarci”.
Ma già nel suo Dna, Giuliana Linda portava i cromosomi giusti: nipote del presidentissimo Giuseppe Bertoli e cugina del compianto successore, Dino Bruseschi. Potenza del destino, si è ritrovata con il pallone in mano grazie al marito Gianpaolo, ma con un capitale personale non trascurabile, che affondava le radici nella storia del calcio friulano. Per questo, quando la attaccano, non transige: “Da buona carnica, sono molto permalosa. Ho una memoria d’elefante e non perdono. Ma le critiche e le invidie sono degli stimoli incredibili, mi spingono a fare sempre di più”. E va giù duro, quando aggiunge: “Per dove sono arrivata, assieme alla mia famiglia, avrei voluto essere riconoscente. Ma ho potuto dire grazie soltanto a pochissime persone”.

LADY DI FERRO. In effetti, le critiche non sono mancate nei confronti di questa lady di ferro del pallone, ora a pieno titolo inserita fra i Vip del calcio internazionale, amica dei più famosi giornalisti, dal direttore della Gazzetta Cannavò a Biscardi. A un certo punto, sembrava quasi, leggendo certe cronache, che tutto dipendesse da lei, la scelta dei giocatori, quella degli allenatori. Con accuse di indebite ingerenze e scarsa professionalità che l’hanno profondamente ferita, anche perché “del tutto false: non mi sono mai occupata degli aspetti tecnici”, dice, mentre sorseggia un caffè nell’impeccabile giardino della villa dove abita in città, a due passi dal centro. L’unica “colpa”, se così si può chiamare, fu quella di rappresentare l’immagine dell’Udinese, quando il marito assunse un ruolo più defilato. “Ci è parso giusto che alcune cose restassero in famiglia e io ero l’unica che risiedeva a Udine”. Né si è mai sottratta a questa visibilità. E a ciò che le è costato: “Devo convivere con un vigilante. Ho dovuto sottopormi a questo castigo”. Oltre al personale, ospita due gatti: un certosino, regalo della figlia, “che le prende sempre dagli altri gatti del quartiere” e “una trovatella di Ibiza, simpaticissima e molto furba”.

GLI INIZI. Fin da subito, nell’avventura dell’Udinese, non ci furono solo rose e fiori. Era l’86. “Siamo partiti con i famosi 9 punti di penalità e quando Dal Cin ci contattò non lo sapevamo ancora. Mio marito viveva a Barcellona, aveva appena preso la Casals. Il calcio era la sua grande passione. Ma si fidò troppo degli altri, preferì delegare, e arrivarono anche i maneggioni. C’è stato un momento in cui stavamo per scoppiare, la società ci stava per sfuggire dalle mani”. Adesso, però, “penso di aver ottenuto il rispetto anche da chi mi boicottava”.

LE INDAGINI GIUDIZIARIE. Memorabile fu il giorno in cui si presentò davanti alle telecamere e pianse: “Avevano messo sotto accusa la mia famiglia, i miei figli – e mentre ricorda, le vengono di nuovo gli occhi lucidi, di fronte a quello stesso salotto di casa dove la riprese la Rai, attorniata dalle foto dei figli -. Quel giorno, a Barcellona, tornavo dalla spesa: vidi decine di poliziotti davanti alla nostra casa, erano già in azienda. Usarono ogni pretesto, dissero anche che cercavano droga e prove di un traffico di prostituzione. Al rientro in Italia, quando seppi della conferenza stampa dei magistrati, presi una decisione che mi lacerò: ma dovevo dire qualcosa”. Ci fu anche chi la chiamò “per complimentarsi per la bella commedia”. Resta inflessibile: “Non perdono. Non nego che ognuno debba fare il suo mestiere. Ma tanto accanimento non lo giustifico. Fu un’azione vergognosa per infangare imprenditori italiani che portano all’estero alta tecnologia”.

I TIFOSI. “Da questa attività, non mi sono mai aspettata onori, ma rispetto sì, per ciò che la mia famiglia sta facendo, da sola, rischiando in proprio: ormai siamo legati al calcio, a questa squadra, ai suoi risultati. E si sa che a ogni vittoria può seguire una bastonata”. Pensa ai 24 mila abbonamenti di Reggio Calabria, “mentre noi siamo sempre lì col bilancino” e ricorda che “quando rinnovammo il contratto a Bierhoff, si aggiunsero solo 20 abbonati in più”. Ma riconosce che “la partecipazione a Praga è stata fantastica”, che “i capi delle tifoserie sono bravissimi, hanno un difficile lavoro di coordinamento e lo svolgono egregiamente” e che “soprattutto le donne presidenti dei club sono attivissime”. Ma non le vanno giù “certi vuoti vergognosi sugli spalti, per uno spettacolo del genere: Udine non è una piazza facile: fossimo a Bologna, sarebbe tutta un’altra musica. Ma così è, questo è il nostro Friuli”, ammette. Friuli generoso, però, se è vero che un pezzo importante dell’impegno sociale dell’Udinese è merito suo.

LA SOLIDARIETA’. “Quando ho cominciato a occuparmi dell’Udinese, mi sono accorta che con il calcio si potevano aprire molte porte. E ho voluto provarci”. I disabili non hanno solo l’accesso facilitato e una tribuna, vicino alla curva sud, a loro riservata. “Ci teniamo a che seguano le attività sociali – spiega Giuliana Pozzo -, partecipano alle cerimonie, alle inaugurazioni dei club, oppure noi, con i giocatori, li andiamo a trovare. Non è per beneficienza, i soldi non bastano, per loro conta la possibilità di condurre una vita normale, in cambio restituiscono un affetto incredibile. Per me, che sono una madre sola, con i figli che vivono lontano, è un grande conforto. Con i fondi raccolti abbiamo acquistato attrezzature o macchinari per far superare certi problemi ai più gravi e aiutare certe famiglie. Con “Fai sport” e un’associazione di Cordenons collaboriamo per favorire la pratica sportiva dei portatori di handicap”. Un altro impegno è a favore dei trapiantati di fegato: con “Udinese per la vita”, ogni anno una borsa di studio, “intitolata a mio padre Gino, che morì quando avevo 22 anni per una malattia epatica”, consente a un giovane di fare ricerca negli Usa. “Senza la ricerca non si progredisce, il centro del professor Brosadola, alla clinica chirurgica del Policlinico universitario, è uno dei primi in Italia. Presto consegneremo anche uno speciale macchinario, costato 60 milioni, sempre grazie al contributo dell’Udinese calcio e dei tifosi. “In questo sono fantastici”. Ma non ha trovato generosità ovunque: “Ho bussato alle porte di persone ricchissime, di grandi aziende, di banche: niente. Ma i calciatori rispondono, “sono meravigliosi, non si sono mai tirati indietro. In questo possiamo dire di aver vinto lo scudetto”.

LA CITTA’. Quando si sposò giovanissima con l’industriale Pozzo non pensava che al ruolo di moglie e madre: “Ero una donna tradizionale: la famiglia, i figli”. Poi venne la prima attività, un negozio con la sorella in via Mercerie: “Portammo molte griffe a Udine”. Da lì al “Piccadilly”, ora anche “Udinese point”, per gadget e souvenir, in Marcatovecchio. “Una via che è stata distrutta commercialmente. Che pena”. La capacità di indignarsi per la sua città è rimasta intatta, nonostante gli impegni internazionali. “Se potessi, andrei io a picconare il “sarcofago”, quella bruttura eretta davanti alla Banca d’Italia. E poi quelle bancarelle de giorni scorsi. Mi chiedo se programmeremo la città del futuro con gli stessi criteri”.

I FRIULANI. “Abbiamo questo piacere assurdo di piangerci addosso. Purtroppo, ho percepito molta invidia attorno a noi, c’è la tendenza, così provinciale, a criticare quei friulani che si fanno strada da soli. Mi ricordo di Cecilia Daniela: con tutto ciò che ha fatto, non mi pare che abbia avuto il riconoscimento che le spettava. Si parla tanto di modello Friuli, di autonomia. Si cita la Catalogna: io che a Barcellona ho mio marito e i miei figli, so che c’è un abisso. Là c’è una grande potenza industriale e culturale, qui, al confronto, siamo quattro gatti. A Barcellona le nuove generazioni parlano due-tre lingue, qui noi abbiamo difficoltà a trovare collaboratori. Ma è anche vero che i migliori se ne vanno perché non vengono valorizzati, tante aziende hanno chiuso o hanno venduto. Dobbiamo essere onesti ed obiettivi sul nostro Friuli: c’è a rimboccarsi le maniche, altro che criticare”.

IL PREMIO EUROCHAMPION. “Stiamo già lavorando alla prossima edizione: potrebbe svolgersi a Grado. Senza nulla togliere a Lignano e all’Apt, molto ospitali, ne vorremmo fare un premio itinerante, come occasione per far conoscere l’intera regione. Mi viene in mente lo scenario del castello di Miramare o Villa Manin. Sarebbe straordinario accogliere tutte le autorità del calcio nazionale ed europeo, i procuratori, i direttori di tutte le testate, anche in questi luoghi”. L’idea di farne un riconoscimento all’emigrante del pallone, al miglior calciatore italiano impegnato in un campionato estero, è stata sua e di Italo Cucci, “che ringrazio per i molti consigli e per avermi aiutato a farne un veicolo internazionale di divulgazione della nostra bellissima terra. La Regione ci aiuta e crediamo di ricambiarla: il calcio è il più potente veicolo promozionale”.

GLI EMIGRANTI. “La squadra di calcio è il punto di riferimento dell’emigrante. Mi ricordo una cosa bellissima che mi disse un friulano in Australia: Quando vedo l’Udinese, mi sembra di sentir suonare le campane del mio paese. Ecco, questa è la grande forza di questo nostro impegno quotidiano”.

IL MODELLO-UDINESE. “La grandezza della nostra Udinese la danno le vittorie, altrimenti non staremmo qui a parlarne – ammette – e giuro che in questo non c’entro nulla”. Attribuisce tutti i meriti al figlio Gino, “che ha ereditato l’intuito e la rapidità decisionale del padre” e a lei lascia solo i compiti di rappresentanza: “Accompagno la miriade di procuratori e dirigenti di tutto il mondo che vengono a imparare il “modello Udinese”, spiega, quello straordinario meccanismo che ha fatto sì, negli ultimi anni, una piccola società di provincia insidiasse le grandi al vertice, d’Italia e d’Europa. Un meccanismo grazie al quale, pur cambiando giocatori ed allenatori, si continua a vincere. Il “segreto”, spiega, è nascosto in una stanza super tecnologica dello stadio: “Lì, due tecnici stanno ore e ore a visionare cassette di giocatori di tutto il mondo. Ne studiano lo stile e le capacità e valutano se sono adatti al gioco dell’Udinese. Danno il loro parere, poi l’ultima parola spetta a mio figlio”. Ci tiene a sottolineare che “non facciamo miracoli, di solito scegliamo sempre calciatori che si sono già distinti nei loro Paesi. Siamo solo stati più abili a sfruttare la legge sugli stranieri”.

I GIOCATORI. Un altro elemento determinante “è rappresentato dall’ambiente che facciamo trovare a questi giocatori”. Questo compito è gestito da un team manager sotto la sua supervisione. “Ci preoccupiamo di trovare dapprima la migliore sistemazione per ciascuno, che so, se hanno figli, vicino a un buon asilo. Oppure provvediamo alla collocazione negli istituti scolastici. Poi, abbiamo una squadra di insegnanti di italiano che seguono l’atleta e la sua compagna, con lezioni differenziate: più tecniche per lui, per capirsi con la squadra, più orientate alla vita sociale per lei. Ci preoccupiamo in prima persona anche dei medici, dei pediatri se ne hanno bisogno, di speciali cure: in caso di emergenze per i familiari dei calciatori, abbiamo subito messo a disposizione i migliori specialisti italiani. E’ chiaro che, dopo un trattamento così, non vogliano più andarsene. Si spiega anche l’attaccamento di certuni come Bierhoff o Amoroso. Ma se ce n’è uno che ricorda con più affetto, questo è “Andrea Carnevale: è diventato un caro amico di famiglia. Gli siamo stati vicino quando ne ha avuto bisogno. Ci viene a trovare in vacanza”.

LE NUOVE DIVISE. Da quasi trent’anni titolare di un negozio di abbigliamento, Giuliana Pozzo non può diventicarsi del look de suoi giocatori. Da febbraio si sta occupando della nuova collezione bianconera, vorrebbe vestire i giocatori con le stesse magliette della Nazionale agli Europei, un tessuto attillato e supertraspirante. Ai colori della bandiera, vuole avvicinare l’arancione, colore moda dell’anno: “Bisogna essere innovativi – dice – e aggiornarsi di continuo”

LO STADIO. “Sono orgogliosa di come siamo riusciti a recuperare spazi inutilizzati al “Friuli” per allestire i nostri nuovi uffici. Offriamo una bella immagine a chi ci viene a visitare. Presto intitoleremo la sala stampa a Foni e il centro sportivo a Dino Bruseschi. Paghiamo al Comune un affitto molto oneroso, ma non ci pare di incontrare grande disponibilità al dialogo. Da mesi attendiamo risposte a una proposta che viene incontro alle esigenze dei tifosi, perché offre un servizio in più: è un progetto per realizzare un ristorante self-service sotto alla tribuna centrale. Questo contribuirebbe a fare dello stadio un luogo da vivere per le famiglie, le comitive, e aiuterebbe i tifosi che arrivano da lontano”.

LA FAMIGLIA.
“Vorrei vivere fino a cent’anni come la regina madre d’Inghilterra, solo per stare vicino ai miei figli e aiutarli nella loro vita. Credo che il compito mio come quello di ogni genitore sia fare sì che i figli crescano secondo le loro inclinazioni, aiutandoli, stando loro vicini, ma senza opprimerli. Sono contenta di avere cresciuto due persone forti, responsabili, che lavorano nelle aziende di famiglia per scelta. Hanno studiato all’estero e viaggiano molto”. “Il più bel complimento? Quando mi hanno ringraziato per averli sempre fatti sentire a casa: ho cercato di portare qualcosa di friulano dovunque ci trovassimo. Nel mondo di oggi, è bellissimo emozionarsi e piangere assieme per qualcosa. Il calcio ci ha dato questo. E ci ha uniti ancora di più”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2000.

Condividi su

Gina Marpillero

Interviste alle donne del Friuli Venezia Giulia.

Aveva 68 anni Gina Marpillero quando divenne un caso letterario con “Essere di paese”. Al pari di Maurensig, come la Tamaro. Ma più in modo simile alle ortensie del suo giardino di Porpetto, che fioriscono nell’ombra: così, a poco a poco, quasi senza volerlo, era sbocciato il suo talento, subito premiato dalla giuria dei Nonino con il Risit d’aur. In questi vent’anni, Gina Marpillero ha continuato a essere quella di sempre, la signora dolce ed elegante che ama il “decoupage” e dipinge gatti su sagome di legno leggero. Ma ha aggiunto un altro hobby alla sua costante operosità: scrivere. Inanellando racconti e poesie che sono piccoli gioielli di vita quotidiana, con una predilezione per la sua infanzia, per la giovinezza, vissute in paese. Arta, nella Carnia magica e poverissima dei primi anni del secolo scorso, adesso la Bassa, con la sua acqua che scorre inesauribile. Conserva la straordinaria capacità di stupirsi per le cose della vita, e una grande curiosità, che le permettono di aggiornarsi di continuo, di elaborare e immagazzinare tutto ciò che le accade intorno. Per una signora di 88 anni, non è poco. Infine, patrimonio inestimabile e fonte generosa della sua scrittura, una memoria di acciaio. “Sulle date – ammette – faccio un po’ di confusione. Ma ciò che mi interessa è il flusso dei ricordi, rievocare le sensazioni vissute in quei momenti lontani, stabilre i collegamenti fra i fatti. Non è poi ciò che conta?”.
Ci viene incontro un gatto con un occhio solo all’entrata del tinello della casa friulana, con un fogolar che farebbe invidia a Zorutti. Tutto parla di Friuli nelle stanze di casa Marpillero, con gli attrezzi della vita quotidiana di campagna appesi in ogni spazio libero dei muri, il resto occupato da fotografie d’epoca, i parenti, i tanti cugini suoi e del marito, il notaio sangiorgino Zaina, che conobbe quando faceva la segretaria della Filologica a Udine e che morì prima del suo successo letterario. “E’ che, senza di lui, mi ritrovai con più tempo libero – spiega -, così cominciai a dedicarmi alla scrittura”. Fu una cosa spontanea, il soddisfacimento di un bisogno che veniva da dentro. La figlia Caterina, giornalista a Milano, diede il manoscritto al marito Carlo Castellaneta. Ma lo scrittore era troppo impegnato e forse un po’ distratto, e il tempo passò. Il testo arrivò in Mondadori, lo lesse Alcide Paolini, scelsero di puntare su questa donna già coi capelli d’argento, che scriveva in uno stile semplice e poetico, limpido come l’acqua dei ruscelli della sua Carnia.
“Ho fatto solo la terza media. Toccava ai miei tre fratelli studiare. Uno divenne ingegnere, andò al Politecnico a Milano, l’altro ragioniere, Berto ereditò la passione di mio padre, studiò all’istituto nautico per diventare capitano di lungo corso. Io non sono diventata niente. Anche se sono cresciuta in un ambiente molto colto: i miei fratelli ci tenevano alla mia formazione, mi portavano i libri da leggere, volevano che partecipassi alle loro conversazioni. A dire il vero, avrei voluto anch’io andare a studiare, mi sarebbe piaciuto l’istituto artistico, a Venezia. Ma non mi sembrava giusto lasciare sola mia madre che era vedova, volevo farle compagnia”.
Parlando dell’infanzia, rigira fra le mani un plico di fogli dattiloscritti: “Sono 40 poesiole, dei flash, che ho scritto mentre ero ricoverata al Policlinico lo scorso inverno per una caduta. Mi ero procurata una piccola frattura al bacino e dovetti rimanere ferma 40 giorni”. In cima al fascicolo, il titolo, “Fausta frattura”, simpatico richiamo alla prolificità ritrovata a causa della forzata immobilità. “Io, che di solito non sto mai ferma, lì mi annoiavo da morire”, spiega.
Una poesia al giorno, dunque. E molte toccano i temi della sua infanzia.
“E’ vero. Una, in particolare, è la sintesi del mio essere bambina (la pubblichiamo in questa pagina, ndr): così ero io, ad Arta. E’ stato un periodo particolarmente felice. Anche se quasi non conobbi mio padre, che morì quando avevo 3 anni in un incidente causato dalla guerra. L’ho raccontato in Essere di paese. Poi, quando dovetti andare a vivere in città tutta questa gioia sparì”.
Andò a lavorare a Tolmezzo, e poi a Udine. Che cosa le mancava della sua vita di paese, di quelle storie “di cortile e di corriera” dei suoi libri?
“Tutto. In primo luogo il contatto con la natura, con la terra. Ho sempre amato mettere le mani nude nella terra. Poi, in città nessuno mi conosceva. Non ero nessuno. Ad Arta, ma anche a Tolmezzo, ero “la sorella di”, “la figlia di”. Da Arta, prendevo il trenino, arrivavo a Tolmezzo, dove mi ero impiegata come dattilografa dallo zio notaio e, prima dell’ufficio, andavo a giocare a tennis. Era una vita piacevole. Sul treno, non salivo mai su una carrozza, dove c’era un ragazzo che mi piaceva. In città, a Udine, la vita era diversa, più impersonale. Mi annoiavo da morire. E, non avendo il padre, non si rappresentava nessuno. Poi, in paese c’era una comunanza, si facevano le stesse cose, io ero amica di chi andava a fare legna, il legno mi è sempre piaciuto, andavavo nei boschi, mi buttavo nella neve. Avrei dovuto sposare un uomo con un segheria, così da avere sempre tanto legno a disposizione… Oppure un giardiniere, uno che aveva un vivaio: perché l’altra mia passione è coltivare le piante”.
Invece sposò un notaio, un uomo di lettere. Come la conquistò?
“Veramente fui io a sceglierlo. Avevo 27 anni, lavoravo a Udine nella sede della Filologica, nel palazzo dov’ ora la biblioteca civica. Lui era molto bello, ma timido, aveva molti anni più di me, ed era scapolo. Quell’ufficio, me lo ricordo, era pieno di topi. E freddo. Arrivavo, prendevo su per terra, accendevo il fuoco. Avevo però la compagnia del pittore Pellis, che poi mi fece il ritratto. Avevamo una villetta in via Spalato. La mattina, dovevo andare a portare la posta al mio superiore, il professor Carletti, in municipio. Mi fermavo a prendere una pasta sotto, poi rientravo in ufficio. La gente che frequentava la Filogica era super-colta, al punto che mi sembravano dei folli: io pensavo ad andare al mare, a tornare nella mia Arta a divertirmi, per me perdevano tempo”.
Insomma, lei era come i giovani di oggi: pensava solo a divertirsi.
“Ah, diciamo di sì, ero, per così dire “frascheggiante”, non mi piaceva fermarmi, amavo essere libera, e non legarmi a una sola compagnia. Una volta, mi sono anche quasi fidanzata, ma mi accorsi subito che non era il tipo per me. Con mio marito, fu diverso: un colpo di fulmine. Ci sposammo dopo pochi mesi, nell’inverno del ’39”.
Iniziò così la sua vita di moglie e di madre. Ancora una volta in provincia.
“Andammo a San Giorgio, dove mio marito aveva comprato una casa. Questa di Porpetto era della sua famiglia, ma non era così, era una casa colonica, con le stalle. Ci si veniva di tanto in tanto”.
Lei pensa che la provincia abbia solo lati positivi o che invece ci sia anche qualcosa che manca?
“Forse, in Friuli, siamo un po’ avari di complimenti, non si sa se è pudore o invidia.
Forse siamo timidi, non riusciamo a esprimere i sentimenti. Penso a tanti bravi friulani che hanno fatto carriera nel mondo e che qui sono quasi sconosciuti. Ci sono anche tante donne eccezionali”.
Quelle donne che lei ritrae così bene in friulano, le donne nascoste delle quali ha “scoperchiato i destini con le parole”.
“Sono molto belle queste donne del Friuli e della Carnia, io ne ho conosciute tante, da mia madre, che non so ancora come ha fatto ad allevarci da sola, a far studiare i miei fratelli, a tenerci vicini”.
Lei ha scritto molto in friulano, prose e poesie. Le ultime, però, sono in italiano. Perché?
“Non lo so, forse perché l’ambiente dell’ospedale non mi sembrava adatto. Io lavoro con l’ispirazione. Ho pubblicato “Int e pinsirs a slas” e “Aghe ch’a cor”. Adesso, poi, questi miei due occhi non vanno più tanto d’accordo, così fatico a scrivere. Ma mio figlio pazientemente traduce le mie cose e poi le trascrive col computer. Così è successo per queste poesie”.
La Biblioteca dell’Immagine ha ripubblicato da poco Essere di paese, poi è uscito Novecento friulano. Alla sua bella età, continua a essere sotto i riflettori e partecipa a incontri con il pubblico, nelle piazze e in libreria.
“Ho ancora la fortuna di amare il movimento, non mi piace stare con le mani in mano. Se non taglio, metto a posto la casa, il giardino è sempre in cima ai miei pensieri, le mie piante… Alcune sono lì da più di cinquant’anni, e le ho messe io. E la casa: se scopro uno spazio libero nella parete, mi chiedo subito: e lì, cosa metto? Amo la gente, mi diverte parlare. Non posso più leggere per questa vista che se ne va, così la conversazione è una compagnia. Anche in questo giardino spesso ricevo persone, passo il tempo così e in questo modo condivido i miei ricordi, le cose belle della vita”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2000.

Condividi su