Ritorno in Yemen

Saleem ha vent’anni e un banco di argenti nel suq di Sana’a. Veste pantaloni e una camicia scura, e porta i capelli tagliati corti e pettinati in avanti, come va di moda fra i suoi coetanei in Europa. Ma è uno dei pochi. Gli altri yemeniti, giovani e meno giovani, indossano il turbante e la futa, una colorata gonna a metà polpaccio (adesso va di moda il quadrettato sarong, importato dall’Indonesia: fra le straniere va a ruba come pareo).
E portano la jambiya, il vistoso pugnale decorativo a punta ricurva, fissato alla cintura. Anche sulle donne, Saleem Abdullah la pensa diversamente. Non vuole che le due sorelle, oggi bambine, da grandi mettano il velo. “Penso che uomo e donna debbano guardarsi in faccia, per scegliersi” spiega. Non si sa però se lo dice solo per compiacere la ragazza tedesca a cui sta allacciando un medaglione beduino con un stupenda agata screziata. “E’ una collana della gente delle montagne: la donna lo indossa, assieme a tanti altri gioielli, il giorno del matrimonio, quando il marito la vedrà per la prima volta. Succede quasi sempre, anche qui, in città”, spiega, compiaciuto della sorpresa che suscita negli occhi della sua giovane cliente.

Is salaam aleykum: benvenuti in Yemen. Con i suoi riti e con le sue tradizioni, impermeabili alla modernizzazione. Siamo a Sana’a, magnifica capitale degli altipiani, a 2300 metri di altezza risparmiata da caldo soffocante del resto della penisola arabica.
E benché la “Venezia selvaggia costruita sulla polvere del deserto” sia oggi una metropoli di 2 milioni di abitanti – la definizione è di Pasolini, che nel 1970 qui girò Il fiore delle mille e una notte e se ne innamorò e ne chiese le protezione all’Unesco, concessa nel 1983 -, si sente già nell’aria il profumo delle spezie, degli incensi, della mirra, che le donne usano ancora al posto dell’acqua di colonia. I venditori del suq sono generosi, soprattutto con le straniere, e – sorpresa – non troppo invadenti: si ha subito l’impressione, che durerà per tutto il viaggio, di essere trattate con particolare riguardo, anche se non si indossa il velo. Vietato però rifiutare omaggi: la merce va assaggiata, prima di comprarla.

Pistacchi, datteri, giuggiole, miele, uva passa: sono esposti a montagne davanti alle botteghe. “Zibib, zibib!”, urla il venditore, e ti riempie la mano. Squisita, dolcissima: è uva zibibbo. Città vitalissima Sana’a: fatta di case di argilla colorate con il gesso, elegantissime e fragili, antiche da 200 a mille anni, simili ai palazzi veneziani per proporzioni, affastellamento dei vicoli, e pure per i gatti che abitano le piazzette. Ma la Capitale culturale 2004 del mondo arabo, per l’occasione ancora più bella – hanno ripulito le strade e vietato il centro alle auto -, svela tutta la sua magia dall’alto. Da un samsara, un caravanserraglio, ormai non più ricovero di viaggiatori e di animali. In quello ristrutturato di Al-Mansurah, sede del National Art Center (diretto da Fuad Al Futah, il più famoso pittore yemenita) si sale al tramonto, quando le preghiere dei muezzin si irradiano dalla vicina grande moschea (edificata più di mille anni fa, con Maometto vivente). Allora, le finestre in alabastro oppure di vetri colorati si accendono, e trasformano la notte in un presepio. Al tramonto si spande anche il profumo dei fiori. Adesso è la stagione dei gelsomini. Le donne li infilano in collane, che gli uomini vendono appena dentro Bab Al Yemen, la porta oltre la quale si apre la città vecchia: durano un giorno, ma non si dimenticano più. Già, le donne. Dove sono? Ma l’impressione di non vederne in giro dura solo un minuto. In realtà, è pieno: sole, in gruppo, con i bambini. Sembrano, però, “invisibili”, avviluppate come sono in tuniche nere da capo a piedi (a volte anche con calzettoni e guanti). Qui, niente foulard colorati, come in Egitto: esistono solo burqa, o niqab, o galbab, o come si chiamano le varie fogge di un’unica mise. Alcune impreziosite ai polsini, o sui bordi delle lunghe gonne, da perline e pietre dure – sempre nere, per carità – che mandano un sobrio luccichio. Anche qui c’è stato, negli ultimi anni, un islamismo di ritorno, ma la realtà è che, in Yemen, per storia e per tradizione, il velo, molte donne, non se lo sono mai tolto. Con il disappunto degli stranieri, quantomeno a causa di una curiosità impossibile da soddisfare: vederle in faccia, capire come sono fatte. “Afrah è la mia assistente da 6 anni e non le ho mai visto nemmeno gli occhi”, spiega Edoardo Zandri, l’italiano che dirige per le Nazioni Unite e per il governo yemenita il progetto di conservazione e di sviluppo sostenibile dell’arcipelago di Socotra, paradiso naturalistico di eccezionale bellezza e nuova, ambita meta di ecoturismo. Alle donne, invece, Afrah Ali Mohammed, 26 anni, diplomata geometra, due figli, è ben felice di mostrarsi. Così come le sue amiche e colleghe: girata la chiave della porta del suo ufficio, con un unico gesto si volta e scopre il volto. Bello, sorridente, davvero una sorpresa per chi fino a quel momento ha parlato con una specie di sarcofago nero, senza poter nemmeno incrociarne lo sguardo. “Lo dice la legge dell’Islam.

E io preferisco coprire anche gli occhi”, spiega. Obiettiamo che non è proprio così: ci sono donne musulmane che sostengono il contrario. Ma è difficile smuoverla dalle sue convinzioni, cambia argomento e comincia a parlare dei figli, tema prediletti delle yemenite.

Senza volto e dunque senza voce in pubblico, quando poi si “svelano” alle altre donne nella separatezza dell’harem (la zona della casa riservata a loro) o nella “family room” dei ristoranti (non tutti ce l’hanno: è la sala per le mogli, così possono togliersi il velo dal viso per mangiare!), oppure negli hammam (nelle città ce ne sono a decine, maschili o femminili a giorni alterni), le donne mostrano abiti colorati (alcune proprio sgargianti) e caratteri forti, risoluti. Curiose, fanno un sacco di domande, e poi amano chiaccherare, e raccontare dei fatti loro. Se non parlano una lingua straniera, pazienza: si fanno capire a gesti, e poi l’arabo non è poi così impenetrabile quando si ha voglia di comunicare. Sul velo, invece, non discutono: lo portano, e basta. Oppure lo respingono. Sono sempre di più, ma ancora pochissime. Rima Hassan, 23 anni, di Aden, assistente di volo, porta fieramente i capelli scoperti. Vive a Sana’a e racconta che c’è una sorta di separazione fra chi porta e chi non porta il velo: “Nessuna delle mie amiche lo porta, alcuni uomini ci guardano male, lo accettano solo per le straniere, noi yemenite ci vorrebbero tutte coperte!”, dice sorridendo.

“E’ un problema di cultura: gran parte della gente qui non ha mai viaggiato, e accetta il mondo in cui si trova così com’è, senza farsi domande. Però io sono convinta che le cose cambieranno. Devono cambiare”, aggiunge risoluta. Mai dimenticare che qui siamo in una terra di donne forti, fin dall’antichità. Come la leggendaria Bilqis, la regina di Saba, che tremila anni fa regnava su uno dei Paesi più ricchi al mondo, perché aveva il monopolio di resine preziose, come l’incenso e la mirra, raccolte da alberi che crescono nel Sud. Per immaginare cosa poteva essere quel regno, basta viaggiare per un paio d’ore da Sana’a e raggiungere Mari’b, il sito archeologico più importanti del Paese. Passando prima dalle splendide, piccole città dei dintorni della capitale, strette nei wadi, i canali torrentizi che formano profondi canyon, oppure arrampicati sulle rocce. Imperdibile, nel wadi Dahar, Dar Al Hajar, lo stupefacente palazzo su una pietra: da salire fino in cima. Oppure, più a ovest, andando verso la costa del Mar Rosso, le cittadine-gemelle di Shibam e Kawkaban e i villaggi di Al Mahwit e Al-Tawila, più grezzi ma per questo più “veri”, perfetti esempi dell’abilità degli yemeniti di costruire case nei luoghi più impervi e straordinari.

Ma è un’altra Shibam a lasciare senza respiro: quella nella valle dell’Hadramout, regione assolutamente unica, all’apparenza arida e selvaggia, in realtà civilissima, luogo di santi, studiosi, di pellegrini, e di grandi architetti senza nome. Perché i “grattacieli” vecchi di 4-5 secoli di Shibam, così lineari, così perfetti, sono un’opera dell’ingegno collettivo di un popolo, che considerava talmente prezioso il suolo fertile delle oasi del fondo valle da costruirvi le case in altezza, un piano dopo l’altro, impilate vicine, quasi a sorreggersi, assolutamente sobrie, senza concessioni allo stile, eppure stilisticamente perfette. Muri dai colori caldi, in tono con le rocce circostanti. Fatte di mattoni di fango e paglia, che vedi costruire ancora, lungo la strada da Seyun, dove l’imponente e bianchissimo palazzo del sultano Mansur bin Ghalib non ha storia di fronte alla “Manhattan del deserto”. Ma costruiti con il fango sono pure i palazzi di Terim, la città delle 365 moschee, dove la famiglia Al Khaf ha lasciato lo splendido, omonimo palazzo, in stile barocco-giavanese, reminescenza dei loro viaggi e commerci. Ogni casa a torre (a Shibam ce ne sono 500, raggiungono anche 8 piani) è abitata da una famiglia. Una famiglia allargata, con nonni e cugini. Le bellissime finestre di legno intagliato senza vetri lasciano filtrare la luce, non il sole; nelle intercapedini dei muri ci sono bocce di terracotta porosa piene d’acqua appese a reti: l’aria le attraversa ed entra fresca nelle case fresca. Juman, giovane commerciante di stoffe, apre volentieri la sua: al primo piano c’è il deposito, “una volta – spiega, “qui si tenevano le capre”. Poi c’è il salotto, il diwan, per ricevere gli ospiti, poi più su la cucina. Chiede discrezione agli uomini: questo è il piano di sua moglie, possono visitarlo solo le donne. Subito Fatma, la sua signora, che sta guardando una telenovela araba in tv, ci invita per il te nel suo harem coloratissimo, fra tappeti e cuscini. L’ospitalità è sempre talmente gentile e generosa, che è impossibile rifiutare. Più su, ci sono le camere da letto, poi il mafraj, il salotto con vista, all’ultimo piano. E’ tipico di tutto lo Yemen, a Sana’a ce ne sono di bellissimi, rivestiti di tappeti e con le panche imbottite sui quattro lati, e finestroni alle pareti per la vista dei dintorni. Qui c’è pure il manzar, un miniattico sul tetto, aperto sui lati, ancora più panoramico. Tutta la casa è accessibile da un unico portone di legno, meravigliosamente intagliato, con le serrature antiche, speciali, apribili sono da chi conosce il segreto, usate ben prima che inventassero le chiavi, i lucchetti.

Il caldo qui è torrido, ma nei campi si lavora.
E sono le donne a pascolare le capre, a provvedere al raccolto: nel pomeriggio gli uomini sono ormai intenti a masticare il qat, le sottili foglioline di una pianta moderatamente allucinogena che assomiglia per l’uso alla coca. Si masticano per tradizione dalle tre di pomeriggio, la “palla” di verdura che si forma resta nella guancia fino a prima di cena. Il qat ha soppiantato le coltivazioni di caffè: si dice fosse il migliore al mondo (da qui si diffuse nel 1600 grazie a mercanti olandesi: il nome moka deriva dal porto yemenita di Al Mocha sul Mar Rosso). Intanto, le donne lavorano, anche sotto il sole che brucia, integralmente velate. Si distinguono per un puntuto cappello di paglia a tesa molto larga, del tutto simile nella forma a quello delle streghe. Serve, oltre che per ripararsi dal sole, come contenitore, per lasciare le mani libere. Siamo in maggio: tempo di nozze anche qui. Il matrimonio è l’occasione di festa più gioiosa per gli yemeniti, i ricevimenti durano giorni e sono grandiosi, motivo di orgoglio da mostrare anche ai visitatori stranieri.
E le donne, ancora una volta, sono le più fortunate. Perché possono assistere a entrambe le cerimonie: quella degli uomini e quella – scatenata – delle donne. Una fortunata occasione si presenta a Mukalla, città costiera sul Mare Arabico, una diciottenne figlia di benestanti proprietari terrieri ha appena sposato con una cerimonia durata tre giorni lo sposo promesso dai genitori. Siamo alle battute finali, quelle delle danze. Gli uomini e donne festeggiano separati: i primi all’aperto, le seconde nel salone dei ricevimenti. La sposa è sontuosamente vestita di bianco, abito di raso lungo e scollato, molti argenti addosso, piccoli brillanti sul diadema nei capelli acconciati a boccoli, decolleté candide, simile a una qualunque sposa occidentale, anzi più vistosa. Appare fra le sorelle, le parenti, le amiche, che fino a quel momento hanno ballato musica dance, alternata da canzoni hadramite, tipiche del sud-est, eseguite da un complesso locale, di sole donne. Che, a un certo punto, si ferma e intona una specie di lamento, a un ritmo quasi ossessivo: annuncia l’arrivo dello sposo, in costume tradizionale, con una delegazione di parenti stretti.
Un bel ragazzo, occhi nerissimi: trova ad accoglierlo “scoperta” solo la splendida sposa; le altre donne sono “sparite”, inghiottite dai loro veli corvini. Spariti i gioielli, sparite le mise eleganti, scomparsi sotto il velo jeans e camicette attillate. Anche per la sposa sarà così: concluso il matrimonio, non si mostrerà più ad alcun uomo, fuorché il marito e i parenti stretti.
La festa è finita, shukran, grazie.
E’ vero, forse un giorno in Yemen la vita per le donna cambierà, come si augura Rima o come spera Saleem. Ma da qui, in mezzo a questo mare di veli neri, quel giorno sembra davvero lontano.

Non sono molti i Paesi arabi dove le donne hanno diritto di voto. Uno è lo Yemen (dal ’96), che è anche il primo ad avere un ministro donna, l’ex giornalista della tv yemenita Amat al Aleem Al Soswa, già presidente del Comitato nazionale femminile, organo di rappresentanza che ha delegati in tutte le comunità e villaggi.
E che quest’anno ha realizzato un video, commissionato a due registe europee, in cui una decina di donne racconta battaglie, problemi e conquiste del difficile cammino verso l’emancipazione. La ministra cerca di mediare fra tradizione e spinte modernizzatrici, fra la shari’a, la legge islamica, e la rivendicazione di parità in tutti i campi, si batte in particolare per migliorare le condizioni di vita e di salute delle donne e per il diritto allo studio della ragazze, teoricamente riconosciuto a tutti, ma scoraggiato dalle famiglie soprattutto nelle zone rurali. E poichè lo Yemen è un Paese principalmente agricolo, accade che alle scuole superiori, spesso distanti ore di cammino, non arrivi che il 20-30 % delle femmine, più utili per lavorare nei campi oppure per accudire le capre e, dopo i 18 anni, per sposarsi e allevare figli (lo Yemen è il Paese con il più alto tasso di crescita demografica al mondo, la media è di 7-8 figli per coppia). Non c’è infibulazione, ma nelle comunità costiere del Mar Rosso sopravvive la pratica della circoncisione femminile. “Nel resto del Paese è però completamente assente”, conferma Alberto Angelici, medico chirurgo italiano da anni volontario in Yemen. La questione del velo è uno dei temi del dibattito, ma non il primo. Quelle che vi rinunciano sono pochissime, ma sempre di più. “Non è la legge islamica, spiega la ministra, a imporre il velo alle donne, ma una forte e radicata tradizione culturale”, che, anzi, a suo avviso, va contro i precetti dell’Islam. I quali “assegnano alla donna diritti aggiuntivi in considerazione della sua natura e del suo ruolo fondante la società”. Sulla stessa lunghezza d’onda, il Forum delle sorelle arabe per i diritti umani, di cui è presidente Amal Basha. Il dibattito viene sviluppato in molti siti internet in lingua araba e, fra gli altri, nel sito in lingua inglese www.arabwomenconnect.org.

Alessandra Beltrame

Grazia, Maggio 2004 .

Nella foto: il souk di Bab al Yemen a Sana’a

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