Tratturo, un viaggio sentimentale

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3 giugno, martedì

Si riparte. Questa volta è il tratturo.  Nessun viaggio è un vero viaggio se non lo fai a piedi, dice Ulrich Grober. Vero. Ho impresse nella memoria le immagini del mio primo cammino in Friuli, dai confini dell’Austria a Venezia. Ripartire non me le fa cancellare. Anzi. Tornare a calpestare la terra, andare eretti, fare solo quello per giorni – dimenticando automobili, pedali e freni, garage e parcheggi -, aggiunge emozioni che si intrecciano a quelle dei precedenti cammini, strati di memoria che affondano in quelli profondi, che a quelli si legano e li fanno emergere, per formare nuova memoria. Più dinamica, più lucida.

Così parto e lascio indietro casa, cose, consuetudini, anche vizi. Non il lavoro. Non ancora. Pochi passi fino alla stazione, poi treno, ancora treno, pullmann e un bus. Un giorno di viaggio che passo al computer, perché in realtà i o   n o n   s o n o   a n c o r a   p a r t i t a.

A Pescasseroli si arriva quasi di sorpresa, una lingua di case in pietra spunta oltre l’ultima curva di verde, e si è già quasi in piazza che hai ancora negli occhi tutto quello smeraldo di natura, bello anche oltre le finestre sporche e dai sedili scomodi del rumoroso quattroruote, brutto come tante cose che appartengono alla nostra in-civiltà. Questa strada senza tornanti, che sale ondulata con dolcezza fino a mille e più metri, mi ha mostrato per chilometri niente altro che il verde tenero dei faggi, quello cupo dei boschi più sù e cime morbide, dai profili curvi, sensuali. C’è fascino anche nelle vette aguzze delle Dolomiti, ma è il fascino della conquista, non dell’abbraccio.

Al “Duca degli Abruzzi” mi accolgono Assunta e un camino acceso. “Se hai freddo puoi sederti là davanti”. Io, in maniche corte, sento invece caldo, e non è solo un fatto fisico. Arriva la mia compagnia, li vedo oltre il vetro, nella piazzetta. Entrano, hanno gli occhi lucidi: hanno appena visto due orsi amoreggiare. “Stavano qui vicino, oltre la strada, forse li potevi vedere anche tu dal pullmann”. Come trofei, spuntano le foto sugli schermi delle macchine digitali. Sono venuti bene: gli orsi sono fotogenici. Lei ha il mantello chiaro, la battezzano Blondie. Lui è un fustone color noce, quel che si dice un bel ragazzo. Il testimonial perfetto del Parco d’Abruzzo, questo Parco-padre, genitore di tutti i parchi italiani. Mi sento un po’ esclusa. Non riesco a condividere l’entusiasmo del gruppo, mi sono persa quacosa. O forse no. Sono qui anch’io, e gli orsi sono lì fuori. Che li veda o no, ci sono, che diamine!

A tavola si mangiano cose del posto: funghi e orapi, gli spinaci selvatici raccolti in questi prati. I minuscoli ceci di Navelli sono nella zuppa, lo zafferano profuma i piatti. I nuovi amici parlano inglese. Tre arrivano dal Canada. Hanno attraversato l’Atlantico solo per venire a camminare sugli Appennini, niente città d’arte né cliché preconfezionati per loro. C’è gente meravigliosa a questo mondo. “Io penso che qui c’è l’Italia vera” mi dirà Dionne il giorno dopo. Dionne viene da Alberta. Il Canada vero, mi viene da pensare. Ci sono grandi viaggiatori: i discorsi spaziano dallo Yemen al Buthan. Ma è assente quella prosopopea tutta italiana di fare sfoggio di conoscenze: qui c’è pudore nel dire “ci sono stato”, ma dai particolari che raccontano capisci che ci sono stati davvero, non hanno visto un Paese da cartolina, come invece tanti turisti che conosco io, quelli che più prendono aerei e meno partono. Domani comincia il cammino.

La foto: salendo verso Opi, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, seguendo il tratturo Pescasseroli–Candela

 

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