Rolling & nuvole. No Tav, molto slow

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E siamo partiti. Ancora una volta. Noi, i Rolling Claps, amici viandanti che amano andare per le antiche vie. Ma anche per quelle nuove, basta che abbiano un senso, che non portino a un centro commerciale, o vadano da A a B con l’asfalto. Ci piace camminare dando un senso a ogni passo. Magari vivendo anche qualche piccolo brivido. Che so: smarrire il sentiero perché si è fatta una variante AC (meglio non tradurre), sentirsi osservare da un animale selvatico, finire le provviste e trovare chiuso l’unico bar nel raggio di dieci chilometri.

Questa volta sono stati gli Appennini. Che sono lunghi e stanno tra due mari. Così pensi, tu che vieni dalle Alpi, che siano dolci e inoffensivi. Macchè: ti spezzano le gambe. Sono tutto un saliscendi e, davvero, non finiscono mai. Ma parlo per me, che non sono né allenata, né alpinista. Cioè sono una Rolling Clap nella media. E poi i calanchi, che ti devi aggrappare alla corda per non scivolare, ed è tutto in cresta, e sotto c’è il mare di nuvole dell’inversione termica, e magari anche dello smog, e non vedi la meta.

Non degli Appennini qualsiasi. Sentiero degli Dei: vi dice qualcosa? Nome da fine del mondo, anzi da fine vita, cioè da Paradiso (per chi ci crede). In realtà, un prosaicissimo (e laicissimo) cammino da Bologna a Firenze, percorso stranoto a cacciatori e fungaioli, diventato una strada antagonista da quando hanno fatto il Tav, cioè da quando ci sono i Frecciarossa che fanno Bologna-Firenze in 45 minuti e tutto quello che c’è in mezzo non conta, anche perché il treno ci passa (quasi) sempre in galleria. E chi (non) s’è visto s’è visto. Ora c’è pure la Vv, la Variante di valico, e insomma non c’è proprio da stare allegri per il consumo del suolo (“Ma in auto si arriva un quarto d’ora prima, vuoi mettere?”)

A Bologna ci siamo riuniti e abbiamo pernottato. Dalle parti di via Stalingrado, ca va sens dire per i nostalgici. Prima di cena siamo andati a fare un briefing in centro, in un posto talmente fighetto che non servivano ai tavoli. Il breafing era con niente di meno che WU MING 2 (scritto in maiuscolo con massima deferenza, visto che siamo nel campo delle entità collettive) il quale sulla Via degli Dei ha scritto ma soprattutto ha camminato. Con noi c’era anche Pablo, uno per cui vale il motto: quattro zampe buono, due cattivo. Infatti è stato dimenticato sotto il tavolo.

Con la benedizione di WU MING 2, l’indomani mattina, districandoci fra le nebbie padane e quelle razziane (che sono urbi et orbi, per chi le conosce), siamo partiti (quasi) all’alba. Destinazione Sasso Marconi, perché così doveva essere e perché – dico la mia – è il paese di mio nonno. Lì ci siamo riuniti con altri Clap giunti da Nordest.

Poi abbiamo deciso di muovere verso Marzabotto, che non era previsto, inaugurando una variante Clap che dal paese dell’inventore della radio ci avrebbe portato in quello dell’eccidio nazista. Celebrare mai, soffrire sempre: questo è uno dei principi ai quali ci atteniamo. Volevamo camminare sulle strade del monte Sole, luogo della strage, vedere quelle valli, sentire quei boschi, toccare con i nostri scarponi quei sentieri dove nel 1944 sono stati uccisi 771 fra uomini, donne (315), bambini (189 sono solo quelli sepolti nel sacrario). Avevamo anche un altro faro a indicarci la strada: quello del Comune di Monzuno che, unico fra tutti, aveva risposto al nostro annuncio di passaggio e si preparava ad accoglierci. I Clap hanno i loro valori, ma hanno anche le loro debolezze. E un invito non si rifiuta mai. Inoltre ci aspettava per la notte l’ecovillaggio L’Alluce Verde, felice esperienza di coabitazione e condivisione agreste messa in piedi da un paio di famiglie di cittadini diventati campagnoli per scelta. Sui colli di Monzuno, appunto.

Insomma siamo partiti, abbiamo varcato il fiume Reno su un ponte pedonale sospeso che pareva quello di Brooklyn, e ci siamo addentrati in fitti boschi da cinghiali, dove il nostro Pablo, più che seguire piste di selvaggina, se ne stava buono buono a seguire la nostra scia. Più saggio di noi, sapeva che più in là avremmo fatto (in)felici incontri con cacciatori in piena battuta (era sabato), che sparavano e protestavano al nostro passaggio. Disturbavamo le prede o, meglio, il loro bottino. Il nostro cane doveva stare alla catena, il loro libero di seguire il sangue, quello delle bestie uccise. Dodici i cinghiali abbattuti quella mattina, ci ha detto poco dopo un fuoristrada con a bordo un bestione. Non quello che guidava, ma quello ucciso ancora caldo che stava dietro: per oggi abbiam finito, ci ha detto il fuoristrada, potete camminare tranquilli.

E così siamo andati avanti, un po’ scossi dagli spari che avevamo ancora nelle orecchie, e sorpresi per quei nomi curiosi che ci seguivano sui cartelli, come Panico, Allocco, Vado (e torno?). Ad Allocco ci siam passati, a Vado pure, dopo un’infilata di villette e seconde case senza nemmeno una piazza o un bar, paesini di chi ha scelto di vivere qui invece di stare a Bologna, o di chi ci viene in vacanza.

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A Vado ci ha consolati una pasticceria, quella dei Sandri, che fa dei panettoni che neanche a Milano, e poi aveva le crescentine che mi ricordavano l’infanzia (d’estate le mangiavo a Lizzano in Belvedere, in cima alla Porrettana. Tre settimane da sola, una pacchia. Era la colonia della Fis, la Federazione italiana scherma. Chissà se esiste ancora).

Non era finita. Ci aspettava l’ascesa all’Alluce Verde. Un sentiero che si inerpica attorno a una cava, e pare non finire mai perché gira, gira, gira. Attorno alla cava appunto. Il bello è che il bosco è pieno di pungitopo con le bacche rosse, sembra addobbato per Natale. Salendo salendo temevamo facesse notte, e invece stava solo per imbrunire quando abbiamo superato una sella e siamo sbucati dietro una casa con un parco giochi e un cane che abbaiava. Erano loro, quelli dell’Alluce, che ci hanno portati in una grande stanza con camino acceso e poi in un altro stanzone con i lettoni per tutti. Una bella impressione. Bagni non riscaldati (agli scout, che qui passano spesso, fa bene così), ma dalle docce usciva acqua caldissima.

Marco Mastacchi è il cordiale sindaco di Monzuno. La specialità del posto, oltre alla macelleria (di cui dico poi), è bere aperitivi rinforzati nel bar che ha la collezione di tazzine più grande del mondo. I Clap non si sono tirati indietro. Qui va forte anche il nocino fatto in casa. Tortelli e ragù a cena, chiacchiere a profusione, ritorno motorizzato all’Alluce, altre chiacchiere sotto le stelle (quante!), sonno dei giusti, risveglio con musiche variegate, da Mozart a Rino Gaetano.

Un breve (si fa per dire: 5 chilometri) cammino per raggiungere l’appuntamento con il sindaco e altri monzunesi. In pasticceria, ancora Sandri. Ovvio che siamo partiti un’ora dopo. La tappa era lunga perché l’approdo era a Monte di Fò, cioè già in Toscana, varcando il Passo della Futa. Così Madonna dei Fornelli, ultima fermata emiliana, ha fatto da filtro fra gli allenati e i debosciati, che si sono fermati in trattoria a bere prosecchi e mangiare salame: quello donato dal celeberrimo Massimo Zivieri, macellaio che sa farsi benvolere anche dai vegetariani. Ci aveva salutati la mattina facendoci annusare i tartufi bianchi appena scovati dai suoi segugi.

Bomba o non bomba (e Monte Venere a parte: anche quello il sindaco camminatore ci ha fatto fare, oltre a una sosta caffè all’agriturismo Sasso Rosso con contorno di mele e noci appena colte), siamo arrivati a Monte di Fò. Per l’esattezza al ristorante-albergo-balera Il Sergente. Era domenica pomeriggio per cui in balera c’era il pienone. Rischioso mettere in naso dentro (l’ingresso dava sul bar) perché c’era subito qualcuno che ti invitava. Ci siamo eclissati alla chetichella dopo aver preso le chiavi delle nostre camerette vista stradone, per riposarci prima della sontuosa cena con gnocchi e ribollita (bona!) e torta della nonna fatta in casa (bona anche quella!). La sera prima tortelli e tagliatelle. Cambi regione e cambia il menù. Sorprese e meraviglie dell’Italia: in pochi chilometri il mondo si trasforma. Dove altro succede?

Eccoci dunque nel Mugello. Terra stronza, come la chiama Simona Baldanzi, scrittrice che la ama tanto da averci dedicato i suoi libri e le sue ricerche. Terra che è stata saccheggiata e sfruttata (Tav, autodromo, fabbriche, cave) e che ora non ha più lavoro e si strugge. Simona arriva la mattina dopo, mentre noi riemergiamo dalle nostre camerette, facciamo una colazione sontuosa al pari della cena (si mangia bene al Sergente!) e ci accompagna per la terza tappa, l’ultima per noi, da qui a San Piero a Sieve, vicino a Barberino, che è il suo paese. Cuore di quel Mugello sventrato eppure ancora sanguigno, pugnace, anche se non sa più contro chi combattere.

Simona ci dice: è tanto che non cammino qui, sono poco allenata. Ma va come un treno, ci fa inerpicare su e giù per i calanchi, ci fa seguire i crinali, ci fa vedere il cimitero dei tedeschi dove c’era la Linea Gotica (32 mila sepolti, sotto 16 mila geometriche lapidi), ci porta su quel monte Gazzarro da cui si vede il suo paese di bambina. “Non potete non salire qui: c’è la vista più bella”. Ed è vero. Attorno a questi luoghi che ora sono coperti da un mare di nubi (potere dell’inversione termica: noi quassù – 1.125 metri – ci godiamo il sole, sotto mezza Italia annaspa nel grigio) Simona ha imbastito il suo libro “Il Mugello è una trapunta di terra”. Sottotitolo: A piedi da Barbiana a Monte Sole. Non c’è solo un diario di cammino nelle pagine, c’è molto di più. C’è la storia dell’Italia che va a pezzi, dimenticandosi del passato e dei valori per cui ha combattuto. Noi si scherza, si cazzeggia, ma quel che Simona ci legge lassù è peso, come si dice da queste parti.

Scendendo da Sant'Agata a San Piero a Sieve, sulla Via degli Dei
Scendendo da Sant’Agata a San Piero a Sieve, sulla Via degli Dei

Si va, la strada è ancora davvero lunga. Speriamo di fare uno spuntino a Sant’Agata, ma è tutto chiuso. E allora si va, si va. Stanchi, affamati è dire poco. Si saccheggiano gli zaini, e per fortuna che spunta un panettoncino di Sandri, che forse era un cadeau per qualche parente. Spazzolato. Il lago di Bilancino, altro prodotto dell’intervento umano che ha prodotto danni. Scarperia all’orizzonte, si arriva a Montopoli. San Piero non si vede, ma è la nostra meta. Dovremo attraversare tutta la zona industriale, chilometri di capannoni trasformati in outlet, prima di entrare in paese e trovare La Pieve, il nostro bed&breakfast (anzi: “locanda per viandanti”), una delizia di posto abitato da persone deliziose che ci fanno dimenticare la fatica dei 60 chilometri e passa che abbiam fatto in tre giorni.

Nonostante siamo sfiniti, prima di cena ci infiliamo in una enoteca, l’Osteria da Piero, dove ascoltiamo racconti esotici e un po’ fantasiosi, vediamo bella gente e ci rilassiamo. E’ l’ultima sera insieme e ci va di festeggiare. Infatti finiamo a cena alla Bisboccina.

Quarto giorno, c’è un treno da prendere per ritornare alle auto, a casa. In linea d’aria Marzabotto è a mezz’ora. In treno ce ne impiegheremo quattro. San Piero a Sieve-Faenza, e vai. Un’ora di attesa per la coincidenza fino a Bologna. E lì si prende il treno per Marzabotto. Partenza alle 9 e 30, arrivo quasi alle 14. Ma va bene così. A noi Rolling piace slow. Per tornare all’auto, a casa, alla routine, c’è sempre tempo.

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