Gianna Lizzero

Interviste alle donne del Friuli Venezia Giulia.

“Di me vorrei parlare il meno possibile. E’ la prima volta che sono io a raccontare. Ho sempre preferito che fossero gli altri a farlo”. Gianna Lizzero è stata una protagonista della Resistenza friulana. Pochi la conoscono come Fidalma Garosi. Il primo è il suo vero nome; il cognome di ragazza è stato sostituito con quello di un altro eroe della lotta antifascista, Mario Lizzero, commissario della brigata “Garibaldi”, deputato del Pci, scomparso nel 1994 a 81 anni. “Anche mio marito mi ha sempre chiamata Gianna”. E’ il nome di battaglia, che ogni partigiano sceglieva come copertura per non farsi identificare in clandestinità. Mario invece era “Andrea” è così Gianna lo ha sempre chiamato. “Era una persona meravigliosa. Da quando non c’è più questa casa è vuota”.
Nel luminoso appartamento di via Generale Baldissera, nello storico quartiere “popolare e antifascista” di porta Villalta, i ricordi si alternano ai quadri dei più grandi artisti friulani. “Ce li hanno regalati, non avremmo certo potuto permetterceli”, dice la minuta signora che ci accompagna nella libreria e ci fa accomodare sulla poltrona dove Lizzero, negli ultimi anni, studiava per l’Istituto storico del movimento di liberazione. “Si metta comoda: deve scrivere”. E’ lei anche a condurre la conversazione: si sistema alcuni fogli dattiloscritti davanti, inforca gli occhiali, e comincia: “Questa chiaccherata ha senso soltanto se posso esprimere un punto cruciale: il contributo dato alla Resistenza dalle donne”.
Com’erano le donne prima della Resistenza?
“In Friuli c’era tanta strada da fare. Io venivo dall’Emilia e lì c’era un po’ più di consapevolezza. Ma non era tanto diverso. Quante volte ho sentito dire: donne cervello di gallina, anche da persone intelligenti. Era così, venivamo considerate inferiori. Con i compagni partigiani invece, c’era un rapporto quasi paritario. Certo, all’inizio fu difficile. Quando io e la mia compagna, Paola De Cillia, “Jole” – era di Savalons, morì poco dopo – arrivammo a Canebola per unirci alla lotta, ci volevano mettere ai fornelli. Eravamo le prime donne che arrivavano lassù. Presi Jole da parte e le dissi: io non sono venuta qui per fare da mangiare e lavare i panni. Andammo dal comandante, Enrico Masut, di Cussignacco: vogliamo fare quello che fate voi, gli dissi: andare in azione, fare la guardia, curare i feriti. Non la presero benissimo, però accettarono”.
Perché venne a Udine?
“Per lavorare. I miei erano di Burana, una frazioncina di Bondeno, provincia di Ferrara, bracciati agricoli, poverissimi, non può immaginare quanto. Ma non ci pesava: a quel tempo eravamo tutti così. Un solo cambio di vestiti, di scarpe. Il mio primo lavoro è stato quello di vigilare sulle mucche, poi a 12 anni sono andata mondina. Raccoglievo il riso ed è stata una grande scuola di vita: le donne che lavoravano lì non avevano certo peli sulla lingua! Parlavano di uomini, di sesso. Erano sboccate, a noi ragazze facevano ridere. Io però volevo tanto studiare, mi ero fissata: diventare infermiera. Mi aiutò tanto la maestra, aiutò tanti bambini di famiglie antifasciste. Come la mia: era schedata. Per questo rischiai di morire già in culla: durante un’incursione dei fascisti, la presero (non era che un cesto di vimini) con me dentro e la scaraventarono giù dalle scale. Dentro trovarono la bandiera comunista. I fascisti non si fermavano certo davanti agli infanti. Questo segno che porto in fronte è la conseguenza di quella caduta. Per farla breve, diventai infermiera nel 1939, a 19 anni, con il massimo dei voti, ci tengo a dirlo. Ma il diploma non serviva a nulla. Ci scrissero sopra: non può esercitare perché di famiglia antifascista. Lo cancellai con la scolorina: la maestra conosceva qualcuno al collegio Uccellis di Udine: li convinse a prendermi. Non avevo la tessera del partito, ma il segretario dei fascisti in paese mi disse: dai la colpa a me, dì che mi sono dimenticato di farla. Non tutti i fascisti erano carogne. Così partii”.
In Friuli diventò partigiana.
“Fu una strada obbligata. Sentivamo l’oppressione dei tedeschi. La direttrice del collegio era una fascista convinta. Mi trattava con sospetto e disprezzo. Io non ho mai voluto fare il saluto fascista, era umiliante, ma scherziamo, mi dicevo. Cercavo di non farmi trovare, o inventavo scuse. Me ne sono andata grazie al professor Pieri, primario in ospedale. Mi disse: venga qui, che abbiamo bisogno di infermiere brave. All’ufficio personale mi avrebbero presa anche subito, ma la direttrice del collegio non mi voleva restituire i documenti. Allora mi piazzai per giorni davanti alla sua porta: di qui non mi muovo, dissi. Alla fine, capitolò. Vede com’era? Si doveva lottare per tutto, anche per i diritti”.
Neanche all’ospedale dev’essere stato facile.
“Oh, no, certo. Ci sono entrata nel ’42 e ho passato tutti i reparti: ero una ribelle. Per fortuna c’era il professor Pieri che mi difendeva. Mi accorsi che non pagavano l’indennità infortuni. In risposta, il presidente dell’ospedale, Fassetta, mi disse: le carceri sono grandi c’è posto anche per te. Ma io mi ero rivolta al prefetto, una persona meravigliosa. Anche se, visto che le mie petizioni erano firmate solo da me – le altre erano tutte d’accordo, ma avevano paura – un giorno mi disse: signorina, prima o poi finirà davvero in prigione se mostra solo lei la faccia!”. Infatti, un giorno è partita la denuncia. I miei genitori erano venuti a trovarmi per il compleanno: sospettavano qualcosa. Li feci ripartire in anticipo, inventando una scusa: mi attendevano già in montagna. Era l’ottobre ’43. Fuggii passando dalla camera mortuaria”.
Quando ha conosciuto Lizzero?
“Qualche giorno dopo. Era il 10 ottobre, a Canebola. Lassù, si moriva di freddo, non avevamo di che coprirci. Venne per parlarci, lo ascoltai e dissi alla Jole: senti, se sopravvivo, io quello lì lo sposo! Oddio, se ne dicono tante…”.
Lui, nelle sue memorie (raccolte da Ines Domenicali e stampate a cura del Pds nel 1993), dice che lei gli salvò la vita.
“Veramente quelle memorie gliel’ho criticate: hai dato poco risalto al ruolo delle donne, gli ho detto. Fu nell’inverno del ’44 che ci conoscemmo: si era ferito, e l’ho curato. Ero tornata lassù, a Monteprato, perché a Udine mi avevano schedata come gappista: confezionavamo le bombe per i sabotaggi ai treni dei tedeschi in una casa di via Zorutti (c’è ancora) e io le trasportavo a destinazione, impacchettandole col fiocco come pacchi regalo… A Monteprato mi diedi da fare come infermiera. Poi anch’io rischiai di morire. Mi hanno chiesto tante volte se avevo paura: certo, ne avevo tantissima. Ma la paura aiuta a sopravvivere. Quando i tedeschi mi hanno presa, ho sparato (portavo sempre con me una pistola) ma l’arma ha fatto cilecca. Si vede però che non dovevo morire. Come in un lampo, ho visto i volti dei miei genitori, ho preso coraggio e mi sono buttata giù in un dirupo. Hanno sparato, le pallottole mi hanno tagliato la coda di cavallo. Ho camminato per ore, mezza nuda. Mi aiutò Irma Franceschini, altra donna stupenda: abitava a Cornino. Sono convinta che la Resistenza non sarebbe esistita senza il contributo delle donne”.
Le donne e la Resistenza: quanto hanno contato?
“Le donne erano sole, nelle città, nei paesi, ma erano infaticabili. Curavano i feriti, che portavamo giù dal fronte. Li tenevano in casa, rischiando di venire fucilate. Donavano i vestiti, trasportavano il cibo: hanno nutrito segretamente 23 mila partigiani! Hanno rivestito i prigionieri che fuggivano: quanti uomini, dopo la guerra, hanno trovato gli armadi vuoti! Le donne non ci pensavano, erano generose. Voglio ricordare che qui c’è stato il più grande servizio d’intendenza della Resistenza italiana: lo guidava “Montes”, Silvio Marcuzzi, caduto e medaglia d’oro, come tante donne: Iole, morta facendo la staffetta, e Cecilia Deganutti, “Rita”, Virginia Tonelli “Luisa”, morte alla Risiera, Angelina Stradiotto, “Lina”, osovana. E le compagne telefoniste, e quelle che s’infiltravano al “Croce di Malta” di via Cortazzis per sedurre gli ufficiali tedeschi e farli cadere nelle imboscate. Ci servivano per fare gli scambi con i nostri prigionieri. Lo ammettevano, gli uomini: le donne avevano più facilità a oltrepassare i punti pericolosi. Eravamo preziose per le missioni più difficili: ecco perché alla fine ci hanno accettate, hanno riconosciuto il nostro ruolo”.
Avete dimostrato le stesse capacità, siete state trattate alla pari. Ma la politica, naturale democratica prosecuzione della lotta per la libertà, ha poi emarginato le donne. Che oggi sono un misero 10 per cento in Parlamento. Come è stato possibile?
“La donna ha fatto grandi passi, durante la guerra, per il suo sviluppo culturale, e anche dopo: si è emancipata, ha acquistato consapevolezza del suo ruolo. Ma il maschilismo è duro a morire. Le donne, ancora, per fare carriera, devono assoggettarsi al potente di turno. Che non molla il posto. Contano la poltrona, il denaro, anche l’invidia. E mi pare che quelle poche dirigenti donne dei partiti non hanno aiutato le altre donne a emergere”.
Dopo la guerra, lei si è impegnata tanto per la città, per la scuola, gli asili, per l’Anpi.
“In questo quartiere credo che non ci sia porta dove non sono entrata. Anche in quelle di chi non la pensava esattamente come me. Ho grande rispetto per le opinioni diverse. Sempre però entro certi limiti. Ho lavorato benissimo con il movimento delle donne, anche se non sono mai stata una femminista: per le scuole materne, riunivamo i comitati in poche ore, eravamo fortissime. Abbiamo scioperato, portato mille bambini in piazza. Poi ho fatto l’infermiera, sono stata all’Inam fino alla pensione, anche lì facendo le mie belle battaglie sindacali. E ho avuto la fortuna di avere mia madre qui con me fino all’ultimo”.
E’ vero che i suoi genitori la credevano morta?
“Mio padre, per la verità. Dopo il rastrellamento e la mia fuga, i tedeschi gli scrissero che ero morta. Lui tenne tutto dentro, non lo disse né a mia madre, né ai miei fratelli. Dopo la Liberazione, prese la bicicletta e arrivò in Friuli per portare a casa la mia salma. Venne al Comitato, che era in piazza XX settembre. Trovò Gildo, il portiere dell’ospedale, quello che già una volta, quando ero sparita, gli aveva dato notizie di me (e quello che ci faceva passare quando facevamo contrabbando di bende, garze, medicine per i partigiani): gli disse stia tranquillo, è viva, sta bene. Venne da me, Gildo: qualcuno vuole vederti. Oltre la porta, c’era mio padre. Che emozione. Mi ha vista incinta, aspettavo Andrea, ma non ha detto niente”.
Vicino alla scrivania, c’è una bellissima foto di Andrea.
“Andrea non c’è più. Era nato il 25 agosto ’45. In casa si faceva confusione con i nomi, però mio marito si accorgeva quando mi rivolgevo ad Andrea, mio figlio: “Lo pronunci con un tono diverso”, mi diceva”. E’ morto in un incidente d’auto mentre tornava dal liceo di Cividale dove insegnava: una motocicletta gli saltò sopra la 500 cabriolet e sfondò la capote. Entrò in coma all’ospedale, “Me lo trovai davanti sul lettino appena entrata: aveva lesioni gravissime alla testa. Visse per poche ore. Morì a 32 anni. Sento ancora la sua voce, giù dalle scale, quando il pomeriggio arrivava a casa e gridava: caffè?. Luciano, l’altro mio figlio, nato nel ’52. Non sono mai stata una mamma assillante, ma siamo molto vicini. Abbiamo un rapporto meraviglioso, molto schietto”.
Della politica di oggi, cosa pensa?
“Devo dire che non sempre la politica della sinistra mi convince. Scelgo anche le persone, le valuto per ciò che fanno, ciò che dicono. Berlusconi si vede che è un commerciante, Bossi è uno che, quando apre bocca, fa pena. Però, Cecotti, il sindaco di Udine, mi piace abbastanza: viene sempre alle manifestazioni dell’Anpi, ha avuto un padre combattente, si mostra fiero di essere sindaco di una città medaglia d’oro della Resistenza. Certe cose si notano. Insomma, è uno con cui si può parlare. Però, adesso nessuno viene a bussare alla porta, a suonare il campanello, come facevamo noi del quartiere: il comitato era vivo e vitale, abbiamo difeso l’architettura del borgo, fatto votare gli amici, vinto le battaglie per i diritti e per la qualità della vita. Adesso, mi pare che ben pochi si muovano. Noi ci troviamo ancora, per fortuna”.
Non fu d’accordo con la svolta del Pci, alla Bolognina.
“No, certo. Comunista ero e comunista rimango. Anche se poi mi ha delusa anche Rifondazione: vidi che al congresso avevano invitato anche il Msi. Telefonai e dissi che non volevo appartenere a un partito che invitava i fascisti. Al congresso dei Ds ho visto anche Rauti: ma per carità… Fin che si tratta di rapporti politici, va bene, ma invitarlo a casa mia, mi dispiace, proprio non ce la faccio. Né condivido il discorso di Violante: riconciliarsi con i ragazzi di Salò? Erano alleati dei nazisti, ve lo siete forse dimenticati?”.
Mario Lizzero seguì invece il Pds. Cosa le diceva?
“Che bisognava guardare avanti. Mi dispiace, ma io non ci sto, gli ho risposto. Abbiamo tanto litigato… Lo svegliavo la mattina e cominciavo. Abbiamo discusso una vita intera, sempre però volendoci bene. Non ci si annoiava mai. Certo, lui era fatto così: prima di conoscerlo aveva avuto diverse fidanzate. Ma scappavano tutte: parlava solo di politica… Con me fece lo stesso: cominciò parlandomi dello sfruttamento dei lavoratori. Ma aveva due occhi… Lo riconosco: io sono un suo prodotto, mi ha formata lui, politicamente parlando. Ma ha sempre rispettato le mie opinioni, non prevaricava. Sua madre, poi, mi aveva insegnato: mai fare la pace per amore, solo se vi siete chiariti. E fra noi funzionava così”.
La battaglia per la regione autonoma, quella per la tutela del friulano, anche in contrasto con i compagni di partito. Lizzero è stato uno dei padri dell’Italia repubblicana, ma anche del Friuli di oggi.
Ha fatto tre legislature alla Camera. E’ stato in Regione, in Comune. Era una persona meravigliosa, aveva un carattere aperto, gioviale, un’educazione brillante, fatta da autodidatta. A vent’anni si era fatto quattro anni di carcere fascista, dal ’33 al ’37. Ha lavorato fino all’ultimo: la sera prima aveva partecipato a una riunione. Morì in un attimo. Aveva 81 anni, si era appena visitato al cuore: tutto a posto, sembrava. Era il 1994. E’ stata dura abituarsi a stare senza di lui. Mi manca molto. Ma credo manchi a tanti”.
Lei le sue medaglie le ha conquistate lottando: due croci al merito e il grado di capitano per il contributo dato nella Resistenza. Alle donne di oggi, cosa dice?
“C’è n’è una che mi piace molto: Livia Turco. Un modello: pone i problemi, non sé stessa, in primo piano. Tante donne, purtroppo, non sono così. Certo che bisogna conquistarsi i galloni per andare avanti. E fare squadra, essere solidali. Ma anche l’uomo deve rassegnarsi: bisogna costringerli a dare spazio alle donne, altrimenti non lo faranno mai. La seconda volta che salii in montagna, durante la Resistenza, il comandante di quel posto mi disse: qui non vogliamo donne. Mi dispiace, risposi, io resto qui. Non mollare, non mollare mai: se si crede in ciò che si fa, se si sa che si può essere utili, con un contributo d’idee, o con l’azione. Da tempo mi batto all’interno dell’Anpi perché sia riconosciuto il ruolo della donne nella Resistenza. Finalmente, ne faranno un libro. Per la coscienza e la consapevolezza delle donne di oggi, conta anche la storia di ieri”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2002.

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