Dora Bassi

Interviste alle donne del Friuli Venezia Giulia.

Ho incontrato Dora Bassi in un afoso mezzogiorno d’estate, nella sua casa luminosa di Gradisca, le finestre che danno su un giardino selvaggio e raccolto. Mi ha salutato regalandomi i suoi libri. “Vorrei che prima di scrivere di me li leggesse”, mi ha chiesto con delicatezza. E sono stata così travolta dal racconto della sua vita intensa al punto che mi è stato difficile riunire una personalità tanto ricca in poche righe, quante ne servono per un’intervista. L’occasione per provare a farlo mi è stata offerta dalla bella mostra che la Provincia di Udine le ha dedicato nella chiesta di San’Antonio Abate (che resterà aperta fino al 10 ottobre, dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19 tutti i giorni, lunedì esclusi).
Dopo l’omaggio di Gianfranco Ellero, che nella galleria del Girasole lo scorso luglio aveva offerto la filologica ricostruzione della sua primissima personale del 1954 – “E’ nata una pittrice neorealista”, annunciò, allora, Alcide Paolini -, Dora Bassi ritorna a Udine. La città, sempre avara in verità con i suoi figli più brillanti, coglie l’occasione degli 80 anni della pittrice per onorare la sua attività artistica. Gli anni sono tanti, davvero, ma non pesano: “Sono felice – confessa – e vorrei che questa mia vecchiaia non avesse mai fine. Dipingo molto, è una mia esigenza vitale”. Forte lo è davvero, Dora Bassi, per quel suo sguardo acuto, la mano che stringe forte, la sincerità del pensiero.

L’arte è il suo elisir di lunga vita? Si parla tanto, oggi, di rimanere giovani in eterno. E’ questo il suo segreto?
“Sì, francamente spero che mi saranno concessi i tempi supplementari. Devo capire ancora molte cose, devo ancora imparare. Le confesso che non sono del tutto soddisfatta di ciò che riesco a fare. Dentro ho delle forti pulsioni, bisogna che le decifri meglio. Adesso ho acquisito sicurezza tecnica, ma il progetto mentale è spesso superiore al risultato formale. Dipingere una finestra, una seggiola, un televisore… non è solo un problema di luce, di colore; si tratta di simboli. Il mio occhio, in tanti anni di esercizio, si è modificato. Guardando le cose, cerco meccanicamente i nessi tra ciò che vedo e ciò che ho raccolto dentro di me”.

Lei ha debuttato come pittrice neorealista, poi ha seguito altre strade.
“Neorealista? Agli inizi sì. Avevo frequentato l’Accademia di Firenze e poi avevo concluso a Venezia. Mi ero sposata. Ero molto giovane allora ed era tempo di guerra. L’avvenire era incerto. Tutto accadeva in fretta. In fretta si concluse anche il mio matrimonio. Da Gorizia mi ero trasferita a Udine e, con due bambine piccole, ero già una donna separata. La disperazione era infinita. Ne sono uscita grazie a Pittino. Fred Pittino – e chi se lo dimentica? – incoraggiava i giovani, li faceva esporre insieme a lui. Fred mi ha rimessa in piedi, ma io avevo bisogno di riconoscermi in una serie di valori, di condividere un linguaggio comune. Alcuni artisti che conobbi in quegli anni erano nel Pci, facevano parte del corpo sociale che voleva la ricostruzione morale del Paese. L’impegno era forte, dicevano che ogni gesto di vita quotidiana era una scelta politica. Bene, è così che sono entrata nel neorealismo, anzi nel “neorealismo friulano”, come specifica Ellero. Frequentavo Anzil, Zigaina, Canci Magnano; conoscevo il giovane Altieri. La loro passione civile mi affascinava ma io non riuscivo a vedere l’arte connessa in modo così totale alla politica. A Gorizia, nella mia prima giovinezza…”.

Gorizia, appunto. Lei ha frequentato il ginnasio liceo in epoca fascista: quali erano i valori che ha assimilato in quel periodo?
“Valori tanti, ma non certo quelli imposti. Molti di noi ragazzi eravamo di temperamento ribelle, insofferente, dissacratore. Ridevamo delle pose marziali di qualche insegnante; storpiavamo le parole degli inni che ci obbligavano a cantare. Qualche soprassalto patriottico l’ho avuto anch’io, come no, ma odiavo la retorica. Del resto a casa, mia madre, la Lidia, era ferocemente antidogmatica e la nonna triestina era nota in famiglia come “socialistoide” e suffragetta. Ma questa è un’altra storia. Mio padre, penso, era un cattolico liberale, certamente antifascista. A diciassette anni, io me la ridevo dei cortei, dei gerarchi in orbace, del giuramento dei balilla e della piccola italiana. Me la ridevo del medaglione con l’immagine del Duce che ci appuntavano sulla camicetta bianca. Ma ero seria e compunta quando mio padre mi portava con sé a Venezia per vedere le grandi mostre. E pensavo: “Chissà se un giorno anch’io…”. Mentre la guerra era in corso, Luciano Gaspari, assistente all’Accademia di Venezia, ci fece vedere di nascosto una monografia di Picasso. Cominciai a odiare le nature morte con fiori e frutta che ci toccava copiare”.
Lei ha anche attraversato il movimento femminista. Ricordo che a Udine è stata una delle fondatrici di Dars, il gruppo di artiste donne.
“Certo. Nel mio passaggio attraverso il femminismo, non mi sono occupata tanto della rivendicazione sociale dell’uguaglianza, quanto del principio della “differenza”. Ritenevo fosse compito delle artiste dare forma a questa consapevolezza, qualcuna già aveva saputo farlo: Kahlo, Bourgeois, O’Keefe. Eravamo a metà degli anni Settanta e per le artiste era importante cercare un linguaggio autonomo. Il Dars ha puntato a questo, invitando le artiste a rifletterci sopra e a proporci i risultati delle loro ricerche. Sono nate così le biennali internazionali a tema. Arrivavano sculture, quadri, installazioni; vennero fatti seminari e convegni. Eravamo in contatto con forti personalità di tutta Europa. Quello è stato un decennio molto intenso e vivo, il nostro gruppo era attivo e conflittuale, ma tra noi c’era stima, solidarietà”.

Lei ha scritto anche dei libri. Nel romanzo “L’amore quotidiano”, finalista al Premio Calvino, parla a lungo della sua infanzia, di sua madre in particolare.
“Ho sentito il bisogno di ripercorrere la mia storia familiare per fare i conti con il passato. E per dare il giusto riconoscimento a mia madre, che mi sembrava di non aver compreso abbastanza in vita. Parlando di lei, mi sono detta, è un po’ come se le restituissi la vita. Quel libro l’ho tenuto a lungo nel cassetto, ho limato il testo per tre anni”.

Cosa aveva di speciale sua madre?
“Mia madre era l’artista di casa, anche se non ha mai coltivato le sue inclinazioni. Forse la pigrizia, le abitudini familiari. Era diplomata in musica. Quando aveva quattro soldi, comprava libri, quadri. Quella di allora era una società contraddittoria: da una parte le donne avevano grandi slanci di libertà e dignità, dall’altra restavano confinate entro un mondo di vecchi valori, dovevano accettare un ruolo marginale, da comprimarie. Anche a Brera era così. Ora, mi dicono, le cose sono cambiate”.

Lei ha chiamato molte sue opere Il trasloco. Si riferiva a Milano, che è stata la sua città per vent’anni?

Quanti anni è rimasta a insegnare a Milano?
“Ho smesso che ne avevo settanta, dunque circa venti. Ma non ottenni mai la cattedra. Non c’erano posti. Sono andata avanti con incarichi, fino alla pensione. Ho vissuto 12 anni al villaggio degli artisti, a Sesto San Giovanni. Che posto orribile: vivevamo con le puzze della Falck, l’acciaieria. Era un quartiere che nasceva per l’idea di un assessore: offriva appartamento e studio a ogni artista non milanese. E’ stato un periodo felicissimo: che vicini di casa, quanti amici. Quanto ho scritto in quelle stanze! Ho anche raccontato la vita di Stelio Sole, che era il mio vicino di casa, pittore e giramondo italocanadese, allievo di Marc Rothko… Ho chiamato molte opere “Il trasloco”. Ne ho fatti tanti… Ma non si è trattato solo di traslochi fisici”.

In che senso?
“La mia vita ha cambiato prospettiva tante volte. Sono stata una ragazza ironica e curiosa a Gorizia; una moglie e madre borghese a Udine. Poi me ne sono andata a Milano, a lavorare, a vivere del mio mestiere di artista. Mi ricordo: trovai subito una mansardina. Vuota, non aveva dentro nulla. Ci misi una sedia: immediatamente diventò la mia casa. In tutti questi spostamenti, l’unica cosa che mi ha seguita, fedele come uno zainetto, è stato l’amore per l’arte”.

Che posto c’è per l’arte nel mondo di oggi?
“Così a caldo non saprei dare risposte precise. Eraclito diceva che nulla si crea e nulla di distrugge, e dunque possiamo trovarci d’accordo almeno su questo punto: l’arte c’è e ci sarà fin che ci sarà l’uomo. Ma dobbiamo riconoscerla anche attraverso le sue trasformazioni organiche. Il suo posto non è più necessariamente il museo, possiamo trovarla ovunque, nel teatro, nella pubblicità, nel fumetto. Penso che dobbiamo imparare a vederla quando c’è ed esserne contenti se è viva, anche se diversa da come ognuno di noi se l’aspetta. Ma il posto dell’arte può essere anche dove è sempre stato, nello studio dell’artista, nel suo sogno, nella sua libertà di vagare in tutta la storia dell’arte, ovunque egli riconosca i suoi padri e le sue origini. E’ difficile trovarla nella popolarità e nel consenso smodato, per la semplice ragione che l’arte, in fondo, ha bisogno del silenzio per rispecchiarsi in se stessa e continuamente interrogarsi”.

Alessandra Beltrame
Messaggero Veneto, 2001.

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