La violenza alle donne: un dossier

Dal 1991 a oggi, in Italia è cresciuto il numero di donne che denuncia di subire episodi di violenza. I casi di violenza accertata seguiti dal Telefono Rosa (che in 15 anni di attività ha ricevuto oltre 500 mila chiamate) sono passati dai 1621 del ’95 ai 2220 del 2003. Sono stimate in centomila l’anno le chiamate ai centri antiviolenza e ai servizi sociali e di emergenza. Mentre restano stabili le richieste di aiuto per violenza fisica (il 35-50% del totale, a seconda delle ricerche), aumentano le denunce per violenza economica (dal 20 al 40%) e psicologica (dall’8 al 20%). Una donna su quattro ha subito una qualche forma di molestia o maltrattamento, come risulta dai dati dell’ultima ricerca svolta in Italia, a cura del Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne dell’Università di Torino nell’ambito del progetto nazionale Urban: un dato in linea con la media europea.

Il numero delle donne uccise in casa in Italia è cresciuto: 74 nel 2000, 92 nel 2002 (più 19,6%), 96 nel 2003 (più 4,2%; dati Eures). E questo nonostante sia calato il numero complessivo dei delitti familiari (meno 10,9%). Di tutti questi omicidi, il 68% avviene per mano del convivente (Fonte: Eures).

Ci si separa sempre più a causa della violenza. Sono in aumento le separazioni giudiziali, ovvero quelle non consensuali (da 25 a 35% in pochi anni): nella metà, sono stati denunciati episodi di violenza fra la coppia. Si tratta di 18 mila casi, pari al 17% delle 105 mila separazioni avviate in Italia nel 2002.

Insomma, un quadro tremendo, che impone di alzare la guardia, e di attivarsi in ogni campo per fermare la violenza: rendendo le leggi più severe, allargando la rete dei controlli e dei centri di aiuto, spezzando l’isolamento delle donne che non riescono a uscire da situazioni personali e familiari che le umiliano e le feriscono.

La violenza domestica

Qui parliamo soprattutto di violenza che avviene in casa. Perché la stragrande maggioranza della violenza alle donne avviene all’interno della famiglia. Ecco perché spesso violenza alle donne e violenza domestica vengono usati come sinonimi.
La violenza domestica comprende tutti quegli abusi che avvengono in casa o nel contesto familiare. Secondo l’indagine presentata all’ultimo Convegno nazionale dei centri antiviolenza e delle case delle donne italiani, il 79 per cento delle violenze alle donne nel nostro Paese è commesso dai partner. Ne parla un film in questi giorni sugli schermi, Ti do i miei occhi, della regista spagnola Iciar Bollain: lei fugge con i figli dal marito violento, di cui ha paura ma che continua ad amare.

Non solo violenza fisica e sessuale.
Il film “Ti do i miei occhi” descrive bene in che modo si manifesta la violenza di lui nei confronti di lei: una serie di “torture” che si verificano all’interno delle mura di casa, dunque senza testimoni (a parte, quando ci sono, i figli, le altre incolpevoli vittime della violenza casalinga) e che non colpiscono solo il corpo della donna, ma anche la sua psiche, la sua personalità, le cose che possiede.

La violenza fisica è la più eclatante e visibile, ma non l’unica. Riguarda il 34% dei casi segnalati a Telefono Rosa e il 57% di quelli ai centri antiviolenza. Le donne denunciano schiaffi, calci e percosse, e veri e propri sequestri da parte del partner (per esempio, lui la chiude in casa, le impedisce di mangiare) e vessazioni di ogni tipo (lui la costringe perfino a non dormire). Ma la violenza si scatena anche sui figli, sugli animali domestici, sugli oggetti personali (lui le rompe i suoi quadri, le strappa le foto, distrugge i libri, brucia i vestiti).

C’è poi la violenza sessuale (il 4% per Telefono Rosa, il 26% per i centri antiviolenza): molestie, stupro coniugale, abusi. Comprende ogni imposizione di pratiche sessuali alle quali lei non dà il suo consenso. Per esempio, ci sono casi in cui lui la costringe ad assistere a film pornografici e a ripetere le scene del film.

La violenza psicologica. Accompagna sempre la violenza fisica e, in molti casi, la precede. E’ ogni forma di abuso e mancanza di rispetto che lede l’identità della donna. Per esempio: lui la critica costantemente, per come si veste e per altri motivi (il peso, il trucco, l’abbigliamento), la umilia e la rende ridicola davanti agli altri; la insulta, la tratta come una cameriera, anche davanti agli amici; la segue, controlla i suoi spostamenti, pretende di sapere dove va e chi frequenta, le impedisce di frequentare amici e parenti; minaccia di fare del male a lei e ai figli. Riguarda l’81 per cento dei casi trattati dai Centri antiviolenza, il 41% delle denunce al Telefono Rosa.

La violenza economica: E’ in netto aumento (dall’8 al 20% in dieci anni secondo il Telefono Rosa) anche grazie al fatto che oggi, contrariamente al passato, la donna riconosce questi atteggiamenti come atti di violenza. Mira a privare la donna dell’indipendenza economica. Riguarda la gestione del denaro per il mènage familiare e ha il fine di controllare la partner. Esempio: lui le impedisce di sapere quanto guadagna e non le dà soldi; la costringe a fare debiti. Una caso tipico è il rifiuto di lui a collaborare alle spese familiari. Oppure avviene che il marito sequestri d’imperio anche lo stipendio di lei, o esiga che lei lo versi sul conto corrente di lui, con l’accusa alla donna di essere incapace di gestire i soldi o per fare in modo che, quando ne ha bisogno, sia costretta a chiederli. O, ancora, capita la moglie sia costretta a firmare impegni legali o economici (cambiali, contratti) contro la sua volontà. Ma la violenza economica si esercita anche impedendo alla donna di ottenere o di mantenere un lavoro (“Non puoi, devi badare alla casa, ai figli!”)

Per saperne di più.
Due libri sono appena usciti. “Crimini segreti, di Giuliana Ponzio, Baldini Castoldi Dalai editore 2004 e “Mi prendo e mi porto via. Indagine sulle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna”, a cura di Giuditta Creazzo, Franco Angeli 2003

La campagna di Amnesty.
La violenza domestica è il crimine contro le donne più diffuso al mondo. E’ la principale causa di morte e di invalidità per le donne fra i 16 e i 44 anni. Più del cancro, più degli incidenti in automobile. Amnesty International ha appena lanciato una campagna mondiale per fermare questa violenza, “il più grave scandalo dei nostri tempi in materia di diritti umani” sostiene Irene Khan, la segretaria generale di Amnesty. Un simbolo: Rania al-Baz, presentatrice della tv dell’Arabia Saudita, che ha mostrato al mondo il volto sfigurato dalle botte del marito, che le ha procurato 13 fatture. “La violenza domestica rappresenta una violazione del diritto delle donne all’integrità fisica e psicologica”, sostiene Amnesty, “e si manifesta nel mondo in varie forme: abusi fisici e psicologici, atti di violenza o tortura, stupro coniugale, incesto, matrimoni forzati o prematuri, crimini d’onore”. Ma ci sono anche i crimini commessi dallo Stato e dalle comunità: almeno una donna su tre nel mondo, secondo i dati di Ai, è stata picchiata, costretta ad avere un rapporto sessuale oppure ha subito altri tipi di abusi. Per una donna su quattro, la violenza non è stata di tipo occasionale, ma si è ripetuta nel tempo. Negli Usa, secondo le statistiche ufficiali, viene picchiata una donna ogni 15 minuti. In Gran Bretagna, i servizi di pronto soccorso ricevono in media una telefonata al minuto per violenze domestiche contro le le donne; e in Belgio più del 50% del donne ha subito una violenza fisica in casa, per lo più da parte del partner.

E l’Italia? Nessuna sa quante siano in Italia le donne vittime di maltrattamenti fra le mura di casa, perché non ci sono statistiche ufficiali. Né esiste ancora una legge ad hoc, contrariamente a molti Paesi europei (c’è solo la legge per l’allontanamento del coniuge violento, ma è insufficiente). L’unico dato nazionale riguarda le donne vittime di violenza sessuale (il 4% secondo l’Istat, pari a 714 mila; l’82% non denunciato). Primo passo sarà dunque “misurare” il fenomeno. L’Istat comincerà quest’anno con un questionario messo a punto assieme al Dipartimento delle Pari Opportunità e che sarà sottoposto a un campione rappresentativo di 30 mila donne italiane.

Perché scatta la violenza e come si manifesta?

Nessuna coppia è potenzialmente immune dalla violenza. E non è vero che accade solo fra le famiglie emarginate. Età fra i 35 e i 54 anni, una relazione stabile (matrimonio o convivenza) e un livello culturale medio o medio-alto: questo il ritratto della coppia-tipo secondo le ultime ricerche in materia. Sfatata anche l’idea che lui sia disoccupato e lei casalinga: quasi sempre lui ha un impiego stabile e lei, oltre a lavorare, ha un titolo di studio (il 6% è laureata). Fra di loro, la violenza esplode quasi sempre con un pretesto (per esempio, la gelosia, nel 44% dei casi) oppure senza un motivo preciso (20% dei casi secondo Telefono Rosa).
Ma perché scatta la violenza? Alla base dell’atto violento, spiega Angela Romanin, della Casa delle Donne di Bologna, “c’è la convinzione di poter possedere l’altro, di essere padrone della vita, dei sentimenti, delle emozioni e dei pensieri del partner. L’uomo cerca di affermare la sua superiorità. A qualunque costo. Rifiuta di mettersi in discussione, di ammettere che sta sbagliando, e, invece del dialogo che la donna gli chiede, cerca con la forza di affermare il suo dominio. In questo modo, vuole mantenere il controllo della donna, sottometterla”.

Una relazione di forza dentro una relazione affettiva.
La violenza a un certo punto esplode e trova terreno fertile. “Nell’85 % dei casi, le donne che denunciano lo fanno dopo anni di soprusi”, racconta Gabriella Garnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa. Il perché è dovuto alla particolare relazione che esiste fra vittima e carnefice: “Si stabilisce una relazione di forza dentro una relazione affettiva”, osserva Adriana Piampiano, psicologa e psicoterapeuta del Centro antiviolenza di Palermo, che sta preparando un manuale per gli operatori dedicato a come affrontare i casi di violenza domestica. “Da qui nasce l’ambiguità e dunque l’incapacità della donna di individuare le colpe del compagno”. Anche se la picchia, la donna continua ad amare il suo uomo, e questo le impedisce di essere obiettiva.

Il ciclo della violenza.
Il clima di violenza nella coppia si sviluppa nel corso del tempo in modo graduale attraverso litigi che diventano sempre più frequenti e pericolosi. Gli episodi violenti si scatenano spesso per motivi banali e sono seguiti dalle scuse e dal pentimento del partner, che promette che si è trattato solamente di un episodio straordinario e che non si ripeterà più. Invece, non è quasi mai così, e anzi, di solito i maltrattamenti aumentano di frequenza e di intensità, e possono condurre anche a conseguenza estreme, se questa escalation non viene interrotta. Si chiama “ciclo della violenza” il modo in cui si svolgono e si ripetono gli atti di violenza all’interno di una coppia. Vi si possono distinguere tre fasi.

Prima fase: la costruzione della tensione. Per esempio, quando nasce una discussione, lei argomenta meglio le sue ragioni, ma lui non vuole cedere, anche se non ha motivi logici per farlo. Allora si innervosisce e comincia a perdere il controllo.
Seconda fase: l’esplosione della violenza. Scatta la violenza fisica, oppure il maltrattamento psicologico, la minaccia, il ricatto, la distruzione di oggetti, la privazione dei soldi, insomma viene messo in atto ogni comportamento diretto a umiliare, fare del male alla donna. In questo modo, l’uomo “vince” sulla donna, perché attraverso la violenza riesce a controllare la situazione.
Terza fase: è quella del pentimento (temporaneo) di lui, del perdono di lei, e di un ritorno della coppia all’affettività. Ottenuto ciò che voleva, l’uomo può tornare “a comportarsi bene”. Finge di provare sensi di colpa, vergogna, pentimento, e lo dimostra a lei. Che, benché ferita, lo perdona e anzi accetta di farsi “riconquistare”. E’ la fase chiamata anche della “rinnovata luna di miele”. “E’ una fase importante, fondamentale” spiega Adriana Piampiano, “perché in questo modo l’uomo riesce a tenere accanto a sé la vittima, altrimenti lei scapperebbe (o soccomberebbe) prima. Invece, lasciandola riprendersi, lasciando che le guariscano le ferite, dimostrando, sia pur falsamente, di essersi ravveduto, l’uomo ritorna a essere agli occhi di lei non più il mostro, ma l’uomo affettuoso e innamorato che lei ha sposato.

Una tortura continuata. Il rapporto, apparentemente più saldo, riprende come se niente fosse accaduto. Ma questa “luna di miele” fasulla dura poco. Dura fino alla prossima esplosione di collera. E si ricomincia: conflitto, aggressione, perdono, luna di miele. Gli episodi violenti si continuano a verificare ciclicamente, a intervalli sempre più brevi e si susseguono in un crescendo di gravità. “Il comportamento dell’uomo che maltratta è stato paragonato a quello usato dai torturatori per annientare le loro vittime. Gli effetti destabilizzanti sulla persona che lo subisce sono identici”, spiegano alla Casa delle donne di Bologna. “La strategia della paura tiene la donna nello stato di timore costante che la violenza possa esplodere in qualsiasi momento. La mancanza di controllo sulla propria incolumità fisica determina uno stato di incertezza e difficoltà permanente che porta la donna a cercare di compiacere il partner per evitare che si verifichino episodi violenti. E’ una tortura mentale e fisica che fa sentire la donna un ostaggio causandole grande sofferenza”. Solo con il tempo la donna si renderà conto che tutto è inutile”.

Cosa accade a lei? La donna resta devastata da questa situazione. “Le ferite sono più profonde a seconda della gravità e della durata della violenza” spiega Piampiano. “Il susseguirsi di shock produce una sindrome post traumatica da stress, che può avere vari sintomi: difficoltà a dormire, ansia, stati di panico, flashback ripetuti in cui “rivede” nella mente le scenate di lui. La violenza domestica ha un forte impatto sull’autostima, tende ad annullare la donna nella sua personalità, nel suo essere. “La donna si autocolpevolizza, si prende la responsabilità di ciò che sta succedendo, si sente inadeguata, incapace, come moglie, come madre.
E i figli? Se ci sono figli, l’assunzione di responsabilità di lei aumenta: la donna si sente colpevole anche per loro. La ripercussioni sui figli sulla violenza in famiglia sono gravissime. “La “violenza assistita” (così si definisce la violenza ricevuta da coloro che assistono alle azioni del genitore) può essere peggiore dell’abuso diretto”, spiega Adriana Piampiano. “Il pericolo è “la perpetuazione del modello relazionale in cui si è vissuti”: significa che un figlio che è cresciuto assistendo a ripetuti episodi di violenza fra padre e madre, tenderà a ripeterli nella sua vita futura, e dunque, se è un maschio, con le sue partner”.

Come fermare lui. “L’uomo violento è il classico “insospettabile. Così lo descrivono spesso gli operatori dei servizi sociali, i vicini di casa”, racconta Piampiano. “Alcuni si spingono perfino a dire che è una persona meravigliosa e che è impossibile che si comporti così”. In realtà, questa dualità di comportamento è tipica dell’uomo violento in casa. Per lui, la violenza non è poi così grave (non è certo lui a portare i segni, le ferite, i lividi!), spesso tende ad addossare la colpa a lei, a minimizzare le sue esplosioni di collera, a dire “non l’ho fatto apposta”. A volte il comportamento violento è dovuto ad abuso di droghe, alcol, dunque bisogna agire sulla dipendenza per fermarlo. “L’unico modo è dire basta, reagire”, spiega la psicologa, “altrimenti non si renderà mai conto del suo problema. Per fermare la violenza di lui, bisogna disinnescare i meccanismi che l’attivano. Con una psicoterapia individuale, per esempio. Solo dopo, si può passare a una terapia di coppia per provare a ricomporre il rapporto”.

In caso di emergenza.

Chiedere aiuto: quando rivolgersi alle forze dell’ordine .
Chiamare i carabinieri, oppure la polizia, è indispensabile quando è a rischio l’incolumità personale. Anche perché in questo modo resta una traccia di ciò che è accaduto. Ma occorre sempre compiere una valutazione del rischio: “Prendere in mano la cornetta del telefono e comporre il 112 (Cc) o il 113 (Questura) può scatenare in lui un aumento della rabbia”, osserva Angela Romanin della Casa delle Donne di Bologna: “sentendosi padrone a casa sua, potrà giudicare questa richiesta di aiuto esterno della moglie come una intrusione nella sua vita privata. Per questo noi consigliamo sempre di valutare bene la situazione, ed eventualmente posticipare la telefonata, dopo che ci è messe al sicuro”. Chiamare le forze dell’ordine però è sempre importante, appunto perché resti una memoria dell’episodio, utile anche in caso di future denunce o vertenze giudiziarie (per esempio in caso di separazione).
Inoltre, è bene anche rivolgersi a un pronto soccorso per le cure e per il referto medico, perché è un documento che accerterà l’entità del danno.

Denunciarlo può servire? Anche qui, bisogna valutare la situazione. Le 60 mila denunce l’anno di cui parla l’Istat riguardano solo i casi più eclatanti. In realtà solo poche donne lo fanno. “Lasciamo libera la donna di scegliere, dopo una consulenza legale con una penalista”, spiega Piampiano. “Di solito lei è frenata da una serie di pregiudizi: perché lui è il padre dei suoi figli, perché non serve a nulla, perché ha paura, perché si vergogna. Ma bisogna superarli: più denunce si faranno, più il problema emergerà, più enti saranno coinvolti, maggiori possibilità si hanno di sconfiggere la violenza. E’ bene cercare di superare l’atteggiamento psicologico che sia tutto inutile”.

Come fermare la violenza

OBIETTIVO: SPEZZARE L’ISOLAMENTO
Una rete di protezione.
Quasi sempre la violenza domestica viene denunciata dopo anni di soprusi. Le vittime di violenze familiari sono spesso isolate, non sanno a chi rivolgersi, vivono nella paura e temono perfino di chiedere aiuto. Si vergognano dei lividi, delle urla, di sé stesse e non riescono a parlarne nemmeno all’amica più cara, al parente più vicino.
Per fermare la catena di violenza che sconvolge la vita familiare di molte donne, bisogna fare breccia nel muro che isola la coppia e impedisce alla donna di chiedere aiuto.
In che modo? Creando una “rete di protezione”, un insieme di luoghi, centri, persone da contattare e su cui fare affidamento. “Solo se trovano chi ha volontà di ascolto, le donne si liberano del peso della violenza domestica, raccontandola e parlandone” dice la professoressa Franca Balsamo, coordinatrice dello studio torinese sulla violenza alle donne. Ecco perché sono nati il Telefono Rosa, Telefono Donna e i centri antiviolenza nelle città. Perché la donna abbia qualcuno con cui confidarsi. Qualcuno che conosce la sua situazione, che ha esperienza del problema. Qualcuno che le capisce. “Spesso è più facile che la donna parli a una voce anonima piuttosto che alla sorella o all’amica”, spiega Angela Romanin della Casa delle Donne di Bologna.

Abbiamo visto che la denuncia può smuovere una situazione violenta che si trascinava da tempo, ma raramente ha efficacia nel breve periodo. Anche il tentativo di ricomposizione del conflitto fra i coniugi può richiedere tempi molto lunghi e può spesso non bastare. C’è un altro modo per interrompere la violenza, ed è far ricorso alla legge.

La legge sull’allontanamento del coniuge violento.

L’unica normativa italiana in materia è la legge contro la violenza nelle relazioni familiari. Approvata nel 2001, prevede il ricorso a un giudice per ottenere l’allontanamento del coniuge violento con un “ordine di protezione”, un provvedimento civile che può essere ottenuto e applicato anche entro pochi giorni. Questo è possibile anche se non c’è un reato accertato: deve però esistere una forte situazione di tensione. “E’ una legge di grande utilità, sia perché serve a far allontanare l’uomo dall’abitazione, sia perché ha un alto valore simbolico” spiega Daniela Abram, avvocata di riferimento della Casa delle Donne di Bologna: “è un monito al coniuge violento. In pratica, gli dice: attento, adesso non puoi più farla franca”. Ma c’è un problema: finora è stata applicata pochissime volte. Perché? “Fino a poco tempo fa, la legge conteneva un errore: il provvedimento civile di allontanamento non si poteva disporre quando era già stato avviato un procedimento penale. Ora il legislatore ha sanato questo difetto, e dunque la legge è molto più efficace. Purtroppo, però, è una normativa ancora poco conosciuta, sia dalle persone, sia da noi stessi avvocati. Inoltre, e questo è un altro grave problema, la maggioranza delle donne non ha la forza di spezzare l’isolamento in cui si trova è chiedere aiuto. E solo con una richiesta formulata da un avvocato e depositata al Tribunale l’ordine di protezione può scattare”. Infine, va detto anche che è una legge parziale: per esempio, non si può applicare nei casi di violenza post separazione.

I servizi sociali: come possono intervenire.

Non sempre i servizi sociali dei Comuni vengono coinvolti. Spesso accade perché la donna teme che l’assistente sociale, venuta a conoscenza della situazione di violenza familiare, faccia allontanare i figli. In realtà non è vero. “I servizi vanno coinvolti. Capita anche che siano i primi a far emergere il fenomeno (per esempio, ne vengono a conoscenza al momento dell’iscrizione dei figli al nido)” spiega Adriana Piampiano. “Inoltre il coinvolgimento degli enti locali è utile nel momento in cui si comincia a organizzare per la donna un percorso di uscita dalla violenza: i sussidi economici, il buono casa, le borse lavoro, e altri aiuti forniti dai Comuni possono essere fondamentali nel nuovo progetto di vita della donna”. Dunque è sempre importante che anche le strutture pubbliche, a cui fanno riferimento gli assistenti sociali conoscano la situazione. “Serve anche per aumentare la consapevolezza del fenomeno della violenza familiare a livello sociale. Più gli enti pubblici di assistenza conoscono i casi, più saranno preparati ad affrontarli. Le Case delle donne e i centri antiviolenza collaboriamo spesso con i Comuni di riferimento proprio per scambiare le esperienze”.

I Centri Antiviolenza. Anni di soprusi, vissuti portandosi da sole il peso di una sofferenza sia fisica sia mentale. Le vittime di violenze familiari spesso non sanno a chi rivolgersi, vivono nella paura e non riescono a confidarsi nemmeno all’amica più cara, al parente più vicino. Perché si vergognano dei lividi, delle urla, di sé stesse e della loro situazione famigliare. “Per questo è più facile che parlino a una voce anonima, piuttosto che a un famigliare” spiega Angela Romanin della Casa delle Donne di Bologna. La sensazione di essere in trappola non fa vedere alcuna via d’uscita. Ecco perché sono nati il Telefono Rosa, Telefono Donna e i Centri antiviolenza nelle città. Tutti, formano una rete di protezione, un insieme di luoghi e persone da contattare e su cui fare affidamento. È lì che la donna trova un interlocutore che conosce la situazione che sta vivendo, che ha esperienza del problema e, proprio per questo, può capirla. “Sono queste le condizioni ideali, oltre alla disponibilità all’ascolto, perché una donna si liberi del peso che si porta dentro” spiega Franca Balsamo, coordinatrice di uno studio torinese sulla violenza alle donne. “Il primo passo per spezzare l’isolamento”.

Come funzionano. Che cosa succede la prima volta che una donna si rivolge a un centro antiviolenza? “Il primo contatto, quasi sempre, è telefonico e vengono garantiti l’anonimato e la segretezza della richiesta di aiuto. Se la donna lo desidera, dopo aver esposto il suo problema può fissare un appuntamento per un incontro” spiega Angela Romanin. “È questo un passaggio importante, il primo passo affinché riprenda in mano la sua vita, e cominci a progettare un nuovo futuro”. I Centri, infatti, possono offrire risposte e soluzioni mirate e competenti grazie alla presenza di esperti. Quasi sempre si tratta di donne: psicologhe, avvocate, terapeute, medici, consulenti bancarie. Molti centri, poi, gestiscono rifugi protetti, il cui indirizzo è segreto. Sono nati per accogliere temporaneamente le donne costrette a fuggire da casa a causa di una grave situazione di pericolo, oppure ogni denuncia è stata vana e non si è riusciti ad allontanare l’uomo violento. In alcune città, sono gestiti direttamente dai servizi sociali, ma più spesso sono affidati a libere associazioni di donne. La differenza? Nel secondo caso, chi decide può farlo in modo più libero e autonomo perché non è ostacolato da intoppi burocratici. Il vantaggio, dal punto di vista pratico, è che si può agire in tempi più veloci.

Le case-rifugio. L’ingresso in una casa rifugio, di solito è il primo passo verso la separazione. Le case-rifugio accolgono una o più donne, sole o con i figli, per un periodo limitato (di solito al massimo cinque mesi). Offrono una protezione totale dal partner violento, perché sono nascoste: l’indirizzo è noto solo a un ristretto numero di persone del centro antiviolenza ed è quasi sempre sconosciuto, per motivi di sicurezza, anche ai servizi sociali di base. Questo non vuol dire, però, che sono “prigioni” dove la donna deve stare nascosta e non muoversi, anzi: essendo studiati per “guarire” una donna dalle ferite fisiche ma soprattutto psicologiche della violenza domestica, cercano di restituirle a poco a poco i ritmi di una vita normale: “Si organizzano incontri, feste, visite a teatro, pomeriggi in piscina o a camminare, insomma cose “normali” che però molte delle donne maltrattate non fanno più da tempo. Le case rifugio sono luoghi dove una donna può trovare un po’ di pace, confrontare le sue esperienza con quelle di altre donne nella sua stessa situazione, seguire un percorso di rinascita in modo sereno e protetto” spiegano alla Casa delle Donne di Bologna. Oltre all’intervento delle operatrici e delle esperte, il terzo supporto viene dai gruppi di aiuto-aiuto, formati dalle stesse ospiti o da donne che hanno vissuto la stessa esperienza in tempi precedenti: “E’ un elemento fondamentale dell’esperienza nella casa”, osserva Angela Romanin, “perché la donna si mette in relazione con le esperienze delle altre e si accorge di non essere più sola o più “sfortunata” e assiste alla “trasformazione” delle sue compagne e “proietta” se stessa verso un futuro diverso”.

Che cosa posso fare per aiutare una famiglia a rischio. In primo luogo, ascoltare. Ci possono essere piccoli, piccolissimi segnali attraverso i quali la donna cerca di coinvolgerti come amica, come vicina di casa. A quel punto, il consiglio è cercare di parlarle da sola, senza testimoni. E dare, subito, supporto e fiducia. Senza giudicare, senza farla sentire diversa. E’ importante inoltre essere inoltre credibili nella propria offerta di sostegno. Perché, in quel momento, la donna è estremamente debole, e sta sondando il terreno, e solo se capisce che davvero la puoi aiutare, si aprirà e domanderà un sostegno. Se invece, ti accorgi di una situazione di violenza familiare e non riesci a instraurare un dialogo, un’idea può essere quella di mettere un adesivo di un centro antiviolenza sulla porta di casa, magari dopo che è uscito il marito: non molto ma, a volte, ha funzionato.

Tutto il dossier è stato redatto con la consulenza di: Adriana Piampiano del Centro antiviolenza di Palermo e di Angela Romanin della Casa delle Donne di Bologna.

Alessandra Beltrame
Donna Moderna, 2004.

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