Mi sono fatta il sito!

Cronache dal mondo virtuale: che cosa succede quando si decide
di mettere su casa sul Web.

Storie, curiosità, segreti per “abitare” in Rete.

Cercavo un luogo dove fermarmi, metaforicamente parlando. Un posto dove raccogliere le mie cose, soprattutto quelle del lavoro, ma anche un po’ di vita, affetti, amicizie che ho sparse per il mondo. L’ho trovato in quell’immenso tazebao virtuale che è la Rete. Dove, ora, ho attaccato un pezzetto di me, e un piccolo messaggio che dice: eccomi, ci sono anch’io! Un po’, lo confesso, mi divertiva l’idea che questo mio spazio fosse pubblico: non privato, non segreto, anche se a portata di clic. Non ho mai provato la narcisistica ebbrezza dei riflettori, ma, che diamine, faccio la giornalista, mi sono detta: scrivo degli altri, metto in piazza i loro affari, e ci metto pure la firma. Perché dovrei temere lo stesso trattamento per me stessa? Non è carino far sapere chi sono, e cosa penso, insomma mostrare la faccia? E così ho deciso di raccontarmi e “mettere casa” su Internet.

Come prima cosa, ho dovuto scegliere come chiamarlo, il sito. Decisione importantissima: perché diventerà il tuo alter ego virtuale, e il tuo recapito “universale” sul Web. Potevo scegliere una sigla (le iniziali, per esempio) oppure un nickname. Ho optato per il “classico” (banale?) nome e cognome, con il suffisso .it. It come Italia, perché faceva più “casa”; l’alternativa .com faceva un po’ business (ma se ne possono scegliere anche altri: .net, per esempio). Digitando www.alessandrabeltrame.it sul portale del provider (ce ne sono vari, il mio è stato Register), in pochi minuti ho acquistato un dominio. Ora dovevo pensare ad “abitarlo”.
E “viverlo”. Mi piaceva che, oltre a parlare un po’ di me, diventasse anche un archivio in progress. Ben più ordinato di quello che si affastella nei miei scaffali e cassetti. La Rete si è rivelata ideale per raccogliere e archiviare informazioni: perché non farlo anche con i miei articoli, altrimenti destinati a durare solo lo spazio della pubblicazione?

Scelto il cosa, dovevo decidere il come. La fase più difficile: la “traduzione” delle intenzioni in immagini, ovvero in pagine web: da reale a virtuale, dal tuo pensiero allo schermo del computer. Mi ha “salvata” un’amica, grafica e web designer, che ha saputo leggere i miei pensieri. “Un sito personale deve dare un’impressione immediata di quali sono le idee, gli obiettivi di chi lo firma. E deve rispecchiare il suo stile, i suoi gusti”, spiega Lucia Ardito. Così ha fatto con me, ma con una libera interpretazione d’artista, in cui ha messo me, certo, ma con abilità e sensibilità tutte sue. La mia immagine ne ha guadagnato, va ben oltre le mie pretese stilistiche. Anche qui, il virtuale aiuta: non vorremmo forse tutti vederci più belli di ciò che siamo nel frenetico day-by-day? Il sito fa anche questo: perché ti ritrae come vuoi tu, nei tuoi momenti migliori… Insomma, guardandolo, la mia autostima ci guadagna. Al di là della veste, la grafica ha dato corpo a ciò che volevo: un luogo agile, facile da “visitare”, ma cui si accede da una “porta” – la homepage – che non si apre subito, ma solo dopo una breve animazione. Offre dunque un accesso discreto, che si rivela solo a chi è davvero curioso di saperne di più.

Appena il sito è stato messo in Rete, non è accaduto granché. Anche perché solo pochi amici ne conoscevano l’esistenza (e si erano già sbizzarriti nei commenti, dapprima curiosi, e dubbiosi: la rete pullula di siti personali pacchiani e senza qualità…). Grazie agli imperscrutabili meccanismi della Rete (in cui però ha messo lo zampino un altro amico (vedi box) – dopo qualche mese il mio sito ha cominciato a circolare nei motori di ricerca (Google, per esempio). E allora sono arrivati i primi messaggi. Prima le “vecchie” conoscenze. Amiche, perse di vista da anni. Come Giovanna: “Alessandra, sei tuuuu? Ti scrivo dalla lontana provincia. Qui le cose hanno il sapore di una volta.
Ci laviamo all’aperto e ci scaldiamo ancora vicino al fuoco.
Ci vestiamo di pelli e mangiamo le ghiande. Adesso ho due bambini, sono diventata biondina (mèches per nascondere i capelli bianchi), ho la dentiera, zoppico, sono leggermente curva, raggrinzita. Insomma, una bomba!!! Quando ci rivediamo?”. Oppure Anna: “Capitata per caso sul tuo sito: fatto bene…”. Ho anche cominciato a ricevere – curiosità – frequenti messaggi da figli di italiani emigrati La gran parte ha il mio stesso cognome. Quasi tutti da San Paolo, Brasile, immenso melting pot di 20 milioni di abitanti con più italiani di Milano che in questi giorni compie 450 anni e dove pare sia diventato di moda andare a caccia degli antenati.

Marcelo mi scrive in italiano con il traduttore elettronico, e si scusa per gli errori (“Vorrei sapere se abbiamo certo grado di affine…”): la sua famiglia è originaria di Treviso, la mia città di nascita. Fabio invece mi racconta che il bisnonno si chiamava Isidoro, e la bisnonna Regina. Antonio José, avvocato di Santa Catarina, mi spiega che moltissimi italiani vivono a Santa Catarina: i suoi arrivarono più di un secolo fa, forse dal Friuli. Mi diverte che tanti brasiliani siano rimasti colpiti dal mio sito. E mi fa pensare. Mi viene voglia di partire, di saperne di più. Chissà: forse davanti a me c’è un futuro brasileiro. Gilberto, altro paulista, mi manda pure la sua foto con i colleghi: troppo carino. Si aggiunge anche Pablo, argentino: studia l’italiano. Ma il messaggio più bello, quello che mi ha ripagata del tempo speso a costruire il sito, è giunto a metà dell’estate: “I am looking for the foreing exchange student that stayed with my family and I in Saint Louis, Missouri, Usa, in around summer 1979-80. “. Jennifer! Abitava con i due fratelli e i genitori a Cedar Hills: cedri giganti e campi di grano, un Midwest che più profondo non si poteva. Avevo sedici anni, lei otto. Studiavo, e scrivevo per il giornale della scuola. Io facevo le interviste e lei mi aiutava nella traduzione. Oggi ha tre bellissimi figli, una storia triste ormai alle spalle e un nuovo compagno. Finalmente coltiva il suo sogno: diventare scrittrice.
Ci eravamo perse, ora ci siamo ritrovate. Sito, mio alter ego virtuale, pezzettino di me sul tazebao della vita: grazie!

E’ questione di dominio
Il primo passo è scegliere un nome (dominio) che identificherà il sito nel WWW, il World Wide Web. Se ne occupa un provider. Io l’ho fatto con www.register.it, la registrazione si fa on line. Il dominio base costa 42 euro l’anno. Spiega Andrea Del Gobbo di Direweb (www.direweb.it), che mi ha aiutata nella creazione del sito e per la parte tecnica: “Milioni di domini sono ormai già occupati, ma sono aumentati i suffissi (.name, .info, eccetera), dunque ci sono ancora infinite possibilità di trovare spazio nella Rete”.
Il passo successivo consiste nella creazione delle pagine: “Ci sono molti programmi fai-da-te, ma la loro qualità è scadente e le varianti grafiche limitate” spiega Andrea. Affidare il lavoro a una web agency o a un webmaster costa “dai 500 euro in su per le prime pagine”. Per manutenzione e aggiornamento, ci si può affidare allo stesso webservice per un basso canone annuo. Quanto alle regole per un sito graficamente bello ed easy, di facile accesso e consultazione, l’art director Lucia Ardito suggerisce colori di fondo che facilitino la lettura (tonalità di bianco, oppure di grigio) con caratteri di testo piccoli (Verdana o Arial), poche immagini e non troppo grandi, animazione flash usata con parsimonia: il rischio è di rendere il sito troppo “lento”.
Non si usa più il “contavisite”, inelegante e poco affidabile.
Ma, volendo, ogni sito ha la sua pagina di statistiche, gestita dal provider: per esempio il mio ha avuto finora 47 mila contatti. Infine, per essere rintracciabili, è bene registrarsi nei motori di ricerca: “Alcune parole chiave, indicizzate, servono a identificare il contenuto del sito. Ogni volta che ne viene digitata una nella ricerca, il link appare nella lista dei risultati”.

Alessandra Beltrame
Grazia, 12 ottobre 2004

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